domenica 18 ottobre 2009

La Castellana nella crisi economica reale

Sui giornali, alla televisione, le istituzioni continuano a ribadire che la crisi è finita e che la ripresa c’è; lenta, ma c’è. Il dato di fatto però è che dentro le fabbriche, nei luoghi di lavoro si respira un’altra aria. Aria di preoccupazione, di difficoltà: si lavora sempre meno e si sta sempre più tempo in cassa integrazione. I dati macro ci dicono che il 2008 si è chiuso con la perdita del PIL dell’1,8%, e le previsioni di chiusura del 2009 sono date per un’ulteriore perdita del 5%. In due anni la perdita di 7 punti percentuali la dice lunga sull’agonia che sta attraversando l’economia reale. Nella Castellana quasi tutti i settori sono attraversati da difficoltà, eccetto poche produzioni di nicchia, e di servizio. Con questa crisi sono emerse con chiarezza le difficoltà economico-produttive nel nostro territorio; dalla conformazione del tessuto produttivo, con un’alta concentrazione di attività manifatturiera. Aziende poco dimensionate con poca capacità di investimenti, di innovazione sia di prodotto sia di processo. L’80% delle imprese ha una situazione patrimoniale difficile, forti esposizioni bancarie, e pochissima liquidità che ne determina l’incapacità a pagare i fornitori e in molti casi anche i dipendenti. E dentro a questa crisi, partita come crisi finanziaria internazionale, si è aperto un ulteriore problema per le aziende, indipendentemente dalle dimensioni e dal capitale sociale, perché le banche stanno limitando l’accesso al credito e chiedono il rientro dell’indebitamento tagliando gli affidamenti. Pertanto aumentano gli insoluti e si dilazionano i pagamenti; di conseguenza aumentano le difficoltà a reperire materia prima per produrre i pochi ordinativi disponibili. La perdita media del fatturato si aggira tra il 30 e il 45%; a questo si aggiunge la caduta del portafoglio ordini. Come si sta affrontando la crisi? Paga chi lavora. Ci sono poche ricette, si cerca di ridurre i costi al massimo. E questo è l’aspetto più doloroso: si dichiarano gli esuberi, si ricorre alla cassa integrazione per chi ne ha diritto; le imprese minori, “quelle artigiane che rappresentano l’80% delle attività”, sono ricorse alle sospensioni EBAV e alla disoccupazione, e solo da maggio possono ricorrere alla CIGS in deroga finanziata dalla Regione e dalla Comunità Europea per un massimo di 180 giorni; finita quella è inevitabile il licenziamento del lavoratore. Basti pensare che a settembre l’utilizzo della CIGS in deroga interessava a livello Veneto 38776 lavoratori. Le aziende sopra i 20 dipendenti per i tre quarti stanno già finendo le 52 settimane di cassa ordinaria e si

stanno attivando incontri presso la Provincia per chiedere l’intervento della cassa straordinaria. Alcune Industrie, per un totale di 1000 dipendenti, a maggio esauriranno il primo anno di Cigs. Questo nelle produzioni di beni, ma anche nel pubblico impiego assistiamo a un graduale smantellamento della struttura, con soluzioni privatistiche. Vengono esternalizzati servizi essenziali consegnandoli alla gestione del privato sociale, con conseguente perdita di lavoratori tutelati e con una certa capacità di reddito, verso lavoratori precarizzati e basso salario. L’altro dato che emerge, è il calo dei consumi, stimato attorno al 5%, e non potrebbe essere diversamente; quando un lavoratore entra in cassa integrazione, perde una capacità di salario di 500 euro mensili. Inoltre in questo contesto peserà sui lavoratori l’accordo separato sulle nuove regole contrattuali; il primo segnale è stato dato dal Governo, con la presentazione della Legge finanziaria, dalla quale si evince che non ci sono le risorse per il rinnovo del contratto nazionale dei dipendenti pubblici. Invece per i contratti delle categorie private, se verranno rinnovati, non recupereranno tutta l’inflazione perché le nuove regole prevedono che l’inflazione dall’energia importata non verrà recuperata. Quelle regole contrattuali prevedono anche che, per affrontare la crisi e migliorare la competitività dell’impresa, si possa derogare dal Contratto Nazionale con la possibilità a livello aziendale di peggiorare le condizioni normative e salariali dei lavoratori. Ancora una volta si cerca la competitività riducendo i costi, limitando i diritti e comprimendo i salari. Ed è inevitabile che in questa fase di crisi rimarrà al palo la contrattazione aziendale, perdendo ulteriormente la capacità di recuperare reddito per i lavoratori.

Quali soluzioni

Oggi serve aprire a tutti i livelli il confronto: con le Imprese, con il Governo, con il sindacato, per bloccare le chiusure aziendali, le delocalizzazioni e i licenziamenti. Servono ammortizzatori sociali per tutti i lavoratori, indipendentemente dalle dimensioni delle imprese. C’è l’esigenza di definire un piano di sviluppo industriale del paese Italia, per definire su quale competitività si svilupperà il paese. C’è bisogno di riprendere gli investimenti nella ricerca e nello sviluppo, magari per attività eco-compatibili. Devono essere riviste le pensioni e rinnovati i contratti per i lavoratori; bisogna detassare l’aumento dei contratti nazionali, non gli straordinari o i premi di risultato che oggi non sono disponibili, per ridare capacità di spesa alle famiglie…. altro che premiare i ladri con lo scudo fiscale.

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