mercoledì 19 maggio 2010

Federalismo demaniale: una nota del Sen. Morando

La recente, drammatica crisi esplosa in Europa trova le sue cause profonde in squilibri macroeconomici di lungo periodo - Paesi come la Germania, in sistematico surplus commerciale e di bilancia dei pagamenti, che convivono nella stessa area monetaria con Paesi in cronico deficit; crescenti divari di produttività del lavoro e dei fattori, non compensati da adeguata mobilità dei fattori stessi; eccesso di indebitamento privato (edilizia e banche), che ora è diventato deficit pubblico (U.K. e Germania) - ma ha trovato le sue più violente manifestazioni sui bilanci pubblici (il collasso della finanza pubblica in Grecia e la concentrazione degli attacchi speculativi sui titoli pubblici di altri Paesi), fino a mettere in discussione il futuro stesso della moneta unica. L'intervento di emergenza messo in atto dai Governi dalla Commissione e dalla BCE - ciascuno nella propria autonomia, ma con un rafforzamento della cooperazione - ha per ora evitato il collasso.
La gravità del rischio corso dovrebbe e potrebbe spingere finalmente ad una maggiore armonizzazione delle politiche fiscali e di gestione dei debiti pubblici. Segnali in questo senso vengono anche dalla Germania, il cui Governo - anche per la pressione esercitata dall'Amministrazione USA - sembra ora richiedere una sorta di "Finanziaria" Europea.

È invece già certo che la revisione dei Trattati sarà orientata a riconoscere centralità al tema del volume globale del debito pubblico, rispetto al parametro - dominante nella prima fase dell'Euro - del deficit. L'Italia ha un elevatissimo (e di nuovo crescente) volume globale del debito pubblico. Quindi, il sistema Paese è vitalmente interessato a consolidare il suo merito di credito. Qualsiasi iniziativa che abbia a riferimento il debito, il patrimonio che lo garantisce, il merito di credito del Paese deve dunque essere assunta senza mai perdere di vista questo contesto.

Il decreto legislativo sul cosiddetto federalismo demaniale non presenta - così com'è stato costruito e presentato alle Camere - questo fondamentale requisito: esso infatti indebolisce la funzione di garanzia svolta dal patrimonio dello stato rispetto al debito pubblico: i beni patrimoniali in elenco, infatti, sono certamente inseriti nell'attivo del Conto patrimoniale dello Stato centrale, a fronte del passivo costituito dallo stock del debito pubblico in capo alle Amministrazioni centrali. Di qui, l'indebolimento delle garanzie: se questi beni "divorziano" dal debito, senza che il decreto nulla dica sul governo di quest'ultimo...

Non si tratta solo di un argomento sostenibile in via generale, quasi di principio (anche se il principio è solidissimo e dovrebbe essere tenuto ben fermo: il patrimonio garantisce il debito, quindi il debito va dove va il patrimonio): nella legislazione vigente resta infatti intatto il comma 5 dell'art. 1 della L.F. per il 2006, che stabilisce che i proventi derivanti da dimissione o alienazione del patrimonio immobiliare siano destinati a riduzione del debito, confluendo nel Fondo ammortamento del debito pubblico.

Connessa a questo più rilevante problema, emerge una seconda questione: qual è il valore di mercato degli immobili in gestione? Nel decreto, il riferimento è ai valori di libro. Una risposta potrebbe venire - avrebbe già dovuto essere venuta - dalla corretta applicazione del comma 222 della L.F. per il 2010, che obbligava tutte le Amministrazioni che hanno in utilizzo o detengono beni immobiliari a compilarne un elenco, entro il 31 marzo 2010. La L.F. 2010 associa alla applicazione di questo comma un risparmio, nel 2011, di 65 mln di Euro. Passi per il futuro risparmio. Ma questo elenco c'è o no? Se c'è, perché il Governo non lo usa in sede di definizione del valore degli immobili? Se non c'è, quali sanzioni sono state comminate ai dirigenti che, con la loro inadempienza, causano un danno all'erario e un così grave deficit di conoscenza al decisore politico?

Risulta infine evidente una terza questione: gli immobili oggetti del decreto danno luogo oggi ad un reddito (stimato in 189 mln). Ma questo reddito sarà certamente il frutto di una sottrazione, tra il ricavato e i costi di gestione. Il loro trasferimento alle Autonomie non può avvenire nella più completa ignoranza sui costi. Per il Bilancio dello stato centrale, il problema viene risolto agendo sui trasferimenti. Ciò che appare inaccettabile per due ragioni: la prima, è la diversa "natura" delle risorse che si vogliono compensare (trasferimenti contro reddito da patrimonio immobiliare), che confonde parte capitale e parte corrente delle entrate; la seconda ha a che fare con la difficile composizione dei tempi del trasferimento/gestione degli immobili rispetto a quelli della riduzioni dei trasferimenti.

Una cosa deve essere chiara: nessuno dei tre problemi sollevati deve essere usato per rinviare o, peggio, non realizzare una vasta operazione di "federalismo demaniale". Al contrario, bisogna fare di più e meglio.
In primis, dovrebbero essere fermi due principi generali:
a.il novero degli immobili interessati deve essere molto più ampio: in particolare, proponiamo di includervi gli immobili della Difesa; e molti beni "culturali" (perché le Autonomie dovrebbero "tutelare" questo patrimonio delle loro comunità meno e peggio dello Stato centrale?);
b.il patrimonio pubblico, garante del debito, sta col debito e va dove va il debito.
La migliore attuazione di questi due principi è certamente rappresentata dal conferimento di una quota maggioritaria del patrimonio pubblico - di tutto il patrimonio, quello dello stato Centrale e quello delle Autonomie - ad una Società che lo paga finanziandosi sul mercato e lo gestisce, attraverso operazioni di valorizzazione e alienazione. Questa Società dovrebbe essere a capitale interamente pubblico ed essere posseduta pro-quota (in base al patrimonio conferito) da Stato centrale ed Autonomie. L'intero volume delle risorse ricavate dalla vendita del patrimonio alla Società in questione dovrebbe essere portato a riduzione del debito.
A promessa della costituzione della società, un trasferimento di molti beni alle Autonomie (in particolare quelli che per essere valorizzati hanno bisogno dell'intervento attivo delle Autonomie stesse) è indispensabile, per una cooperazione tra Stato centrale e sistema autonomistico.
Naturalmente, se il Governo e la maggioranza non hanno la forza politica necessaria per procedere a questa vera e propria rivoluzione, nel rapporto tra stato centrale e Autonomie in tema di patrimonio, possono tuttavia essere apportate correzioni al testo del decreto che almeno non si mettano in aperta contraddizione con i due principi sopra enunciati.

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