lunedì 31 maggio 2010

Fuori da ogni regola


“Cosa ha approvato il consiglio dei ministri? Fuori da ogni regola il governo è nel marasma”. La dichiarazione del segretario del PD, Pier Luigi Bersani, rende l’idea del tutti contro tutti nel Governo che vara la manovra da 24 miliardi. Bondi che si lamenta sul taglio di 232 enti: “Sono stato esautorato” e Italo Bocchino che risponde: “Allora qualcosa non va”. L’abolizione delle Province stoppata da Umberto Bossi in difesa di Bergamo, ma silente sull’evidente pietra tombale data al federalismo da una stretta di 13 miliardi sul Patto di Stabilità, le ore di attesa al Quirinale per vedere la firma di Berlusconi sul testo della manovra, le misure anti-evasione ripristinate assieme al nuovo condono sulle case fantasma e oggi i giornali raccontano di un Tremonti isolato, con Gianni Letta che riscrive la manovra…

Continua Bersani: “Se Bondi non ha visto un dispositivo lungo tre pagine che distrugge metà delle istituzioni e delle fondazioni della cultura italiana, si può sapere che cosa ha approvato il Consiglio dei Ministri? Se l’approvazione è avvenuta “ salvo intese” Bondi si è dunque inteso con Tremonti? E se non è così, lo ripeto, che cosa ha mai approvato il Consiglio dei Ministri? Siamo
evidentemente fuori da ogni regola, oltre che da ogni logica. Con tutta evidenza abbiamo un governo nel marasma”.

Scene che fanno da brutto controcanto alle Considerazioni Finali del Governatore della Banca d'Italia, Mario Draghi, presentate stamani e che descrivono un'Italia che vive una situazione preoccupante, e una manovra che dietro il rigore è inconsistente su riforme e crescita. Per Bersani "dalla Relazione di Mario Draghi sono venute parole preoccupate e veritiere sulla situazione italiana. Un intervento che ha parlato di sforzo coerente
ed unitario, di crescita, di riforme. E' un terreno ben più alto di quello che ci propone la manovra, una manovra che, al di là della sua inevitabilità, emerge dalla Relazione come contraria alla ripresa, inconsistente dal lato delle riforme e aleatoria dal punto di vista delle
prospettive di controllo della spesa".

"Dopo due anni, finalmente, il Ministro Bondi è stato folgorato sulla via di Damasco ed ha scoperto il suo ruolo di garante e di promotore della cultura italiana. Peccato che il suo scatto d'orgoglio ( e di responsabilità) di fronte alla 'manovra dei misteri', che fa scendere come una mannaia la scure dei tagli dissennati anche sulle politiche culturali, arriva quando, di fatto, c'è ormai poco da tagliare". o dice Giovanna Melandri deputata Pd. "Fino ad oggi di fronte al persistente e sistematico svuotamento dei fondi relativi ai beni ed alle attività culturali - aggiunge -, nessuno ha raccolto gli allarmi lanciati dall'opposizione come dagli operatori del settore. Bondi ha davvero capito la drammaticità del momento o sta solo giocando da sponda con il collega del tesoro? Noi speriamo che il ministro Tremonti lo ascolti e ci auguriamo che la cultura italiana non subisca quest'ultima e ulteriore umiliazione dal governo Berlusconi."

Già, Bondi si sente imbarazzato per quella lista che, per restare solo alla letteratura, cancella i nomi di Dante Alighieri ed Alberto Moravia, passando per Alessandro Manzoni e Giovanni Verga, per approdare a Cesare Pavese e Mario Soldati. Non ha pietá la lista dei 232 istituti, fondazioni ed enti culturali finita nel mirino dell'ultima finanziaria e guarda con indifferenza al patrimonio letterario come a quello dello spettacolo, mettendo ad esempio in discussione il festival dei due mondi di Spoleto a venti giorni dal via e la Quadriennale. Tanto che in molti, a partire dalla Fondazione Rossini di Pesaro si appellano al presidente Napolitano.

Eppure nel sito del Ministero dei beni culturali si legge: "Gli Istituti Culturali rappresentano un settore di particolare rilevanza per la Direzione Generale per le Biblioteche, gli Istituti Culturali e il Diritto d'Autore, in virtú della loro importanza quali significativi centri di studio, di approfondimento e di promozione culturale. Costituiscono centri di ricerca e di promozione culturale e rappresentano elementi essenziali di pluralismo culturale". E segue l'elenco in cui figurano quasi tutti i nomi inseriti nell'allegato della finanziaria. E' quindi comprensibile che Bondi dica: Molti degli enti che figurano in quell'elenco vanno soppressi, ma alcuni come il Centro sperimentale di cinematografia, la Triennale di Milano, il Vittoriale, non possono in nessun modo essere considerati lussi. Avrei voluto decidere insieme: il ministero non doveva essere esautorato. Ora mi metterò al lavoro con i miei collaboratori per capire quali di quegli enti sono eccellenze e quali sono inutili. Ma la scelta va fatta insieme". Intanto si chiude la società dantesca italiana di Firenze, fondata nel 1888 a Palazzo Vecchio e che ebbe tra i suoi fondatori Carducci, Chiarini, Cantú, Nencioni e molti altri.
C'è l'Associazione fondo Alberto Moravia, voluta dalle sorelle, da Carmen Llera e Dacia Maraini dopo la sua scomparsa. C'è la Fondazione Giangiacomo Feltrinelli, istituto di valore internazionale.. C'è l'Istituto di studi manzoniani di Milano, l'Ente nazionale Giovanni Boccaccio, e il centro nazionale studi Leopardiani, per non parlare della Fondazione Verga e dell'Istituto studi pirandelliani. E via le fondazioni intestate a Gramsci, De Gasperi, Ugo Spirito, Don Sturzo, Einaudi.

"Si risparmia qualche milione di euro sugli enti culturali quando però piú soldi vengono spesi dallo Stato per sorreggere un sistema che con la cultura non ha nulla a che vedere. E' una vergogna!". Chi l’ha detto? Stefania Craxi, sottosegretario agli Esteri e parlamentare del Pdl, protestando per la cancellazione della fondazione intestata al padre, l'ex segretario del Psi Bettino Craxi.
Non c’è che dire governo in confusione.


Filippo Penati, capo della segreteria politica di Pier Luigi Bersani ribadisce: “L'avevamo detto fin dall'inizio: questa manovra è iniqua, depressiva e rischia di non ottenere nemmeno i risultati sperati per fronteggiare efficacemente questa crisi. Se ne stanno accorgendo anche dentro al governo. Prima i ministri hanno firmato delle misure in bianco e ora si accorgono che i tagli sono fatti a casaccio e che colpiscono tutti i cittadini. In questa situazione di confusione e di rissa dal governo viene, in più, anche il tentativo di scaricare le proprie responsabilità sulle istituzioni. Ha ragione Bersani la manovra è dannosa e il governo, anche in questa occasione, al posto di cercare confronti ha puntato su scorciatoie e ora vuole andare avanti con prove di forza.”


Francesco Boccia, coordinatore delle commissioni economiche del gruppo del Pd della Camera nota come “a distanza di quattro giorni assistiamo alla scomparsa e all'immediata ricomparsa delle Province e di enti vari, mentre rimane chiaro solo che i tagli sono, ancora una volta, sulla pelle dei più deboli e che privilegiati e boiardi di Stato rimangono intoccabili. Gli interventi a favore dello sviluppo per Tremonti possono aspettare, mentre è evidente che i così detti tagli alle Regioni si trasformeranno in nuova pressione fiscale, già aumentata in questi due anni di governo Berlusconi. Quanto devono ancora aspettare le Camere per avere il vero testo della manovra voluta da Tremonti?". Sperimao poco, certo è che sono necessari interventi strutturali per liberare il lavoro dipendente e le piccole imprese dall'eccessiva pressione fiscale, aumentata con il governo Berlusconi dal 42,9% al 43,2%, e da quella burocratica, ripartendo con liberalizzazioni come quelle varate da Bersani, che ieri ha riproposto in un’intervista al Corriere della Sera come sarebbe intervenuto il PD: con riforme che incidono sulla pubblica amministrazione. Ha detto il segretario del PD: “Spostiamo il carico su rendite, ricchezze ed evasione e alleggeriamolo su imprese, lavoro e
famiglie. Quanto alla pubblica amministrazione ci vogliono piani industriali, se ad esempio si abolisce il pubblico registro automobilistico ottieni dei risultati. Se fai dei proclami sui
fannulloni i risultati non ci sono. Berlusconi dice che non ha aumentato le tasse. Che senso ha quando in termini di minori servizi ho dei tagli alle retribuzioni e tutto finirà addosso alle tasche dei redditi medi e bassi? Oppure quando non dai più un’occhiata a quel che fanno le
assicurazioni, al prezzo della benzina o alle farmacie?”. Ed ha ammonito: “Dobbiamo chiederci perché si fa la manovra. Non può passare in cavalleria, è il frutto amaro di 2 anni di politica economica sbagliata. Ora bombardano i redditi medi e bassi e non risolvono il problema dei conti pubblici, per cui tra un anno, o anche meno, saremo da capo a dodici?"


Davide Zoggia, della segreteria del Pd, responsabile Enti locali è lapidario: “Con questa manovra finanziaria, il federalismo fiscale non si farà mai. Non si getta nessuna base per l’autonomia dei territori, anzi li si penalizza in una visione centralistica e gli affida il compito di meri esattori in nome e per conto dello Stato, che in tal modo rinuncia esso stesso a svolgere controlli e verifiche. Il federalismo fiscale allo stato attuale costa, secondo i calcoli di autorevoli studi di ricerca, 130 miliardi di euro e questa manovra, se non verrà modificata radicalmente, ne segna la fine politica”. Concetto su cui torna Massimo D’Alema: “La manovra finanziaria sarà un disastro, e si colpisce sempre da una parte sola".
Visitando una scuola elementare al Villaggio prenestino nell'ambito di una iniziativa del Pd sulla scuola, il presidente del Copasir ha sottolineato che è un errore "fare tagli lineari e tagliare i trasferimenti alle Regioni e agli enti locali perché avranno effetti pesanti. Si dà l'impressione di togliere i soldi ai politici ma in realtà si riducono i soldi per le Regioni e di conseguenza per trasporti e servizi”.
E sempre Bersani a Sky Tg 24 parla dei tagli alle regioni: “Hanno l'istruzione, i servizi sociali, i trasporti... si dá la pistola agli enti locali perché sparino loro".

domenica 30 maggio 2010

L'Assemblea nazionale PD del 21-22 maggio 2010

Nelle giornate del 21 e 22 maggio 2010 si è svolta a Roma l'assemblea nazionale del Partito Democratico che ha rilanciato il ruolo del partito nella società italiana. Alla base dei lavori vi sono 6 documenti su cui è aperta la discussione. Anche il nostro blog vuole contribuire al dibattito e propone in forma integrale i documenti che riguardano
lavoro
giustizia
europa
green economy
università e ricerca
riforme istituzionali
L'invito è a leggere e ad intervenire al fine di arricchire il dibattito che apre la campagna congressuale del nostro partito.

E' disponibile, dal sito nazionale, una pagina dalla quale accedere ai singoli interventi:


Assemblea 21-22 maggio - Europa

Dalla crisi si esce con più Europa

Da cinquant’anni l’integrazione europea è il motore dell’Europa che ha così conosciuto il più lungo periodo di pace della sua storia e una prosperità economica che nessun paese europeo da solo avrebbe probabilmente avuto. Non a caso, nata dalla adesione di 6 paesi, la comunità europea si è via via allargata a 9, 12, 15, 25, 27 e almeno altri 10 stati chiedono oggi di aderirvi. E, tuttavia, come accade a chi giunto a 50 anni si interroga su cosa sarà la seconda parte della sua vita, anche l’Unione Europea è a un bivio. E’ un’Europa percorsa da inquietudini, che la crisi ha ulteriormente accentuato e diffuso. Se per mezzo secolo stare nell’integrazione europea è stato considerato dalla maggioranza dei cittadini europei un’opportunità, un vantaggio, un plus, invece oggi una parte di opinione pubblica guarda all’Unione Europea come ad un rischio, un vincolo impeditivo, una riduzione di opportunità. Quel che fa paura a molti è “la globalizzazione sull’uscio di casa”: la concorrenza dei paesi emergenti che insidia le competitività delle imprese – in primo luogo delle piccole e medie - dei paesi industrializzati; i più alti flussi di immigrazione che suscitano in molti un sentimento di insicurezza; le maggiori incertezze di reddito e di lavoro conseguenti alla bassa crescita; le maggiori insicurezze a cui sono esposti i figli nella società liquida di oggi. E di ogni inquietudine e paura si addossa la responsabilità all’Europa. Atteggiamento favorito e promosso dalle forze populiste e di destra – anche in Italia è così - che sull’antieuropeismo e sull’euroscetticismo hanno fondato la crescita del loro consenso. Addossare ogni responsabilità all’Europa, è una lettura sbagliata della realtà. Non è mettendo in discussione l’Unione Europea o ridimensionandone le ambizioni che i cittadini europei saranno più al sicuro. Proprio la crisi finanziaria di questi mesi ha dimostrato l’importanza di avere una casa europea. Un’Europa integrata è un fattore di stabilità e di sicurezza. Ed è più a rischio chi si chiude nella sola dimensione nazionale. In un mondo sempre più interdipendente e globale, nessuna nazione europea può pensare di farcela da sola.

L’Unione europea è a un bivio: o decide di spingersi con decisione sulla strada di una maggiore integrazione economica, sociale e politica, oppure rischia di andare incontro ad una progressiva marginalità politica e disgregazione economica. La prospettiva europea è peraltro anche l'unica capace di offrire un futuro di unità e di progresso alla nazione italiana ed al suo fragile organismo, che a centocinquant'anni dall'unificazione è sottoposto a tensioni sempre più laceranti e pericolose. Interesse nazionale italiano e interesse europeo coincidono: nell'epoca dell'interdipendenza la sovranità popolare si difende unificando la società civile del nostro continente e non moltiplicando le piccole patrie. Occorre essere protagonisti di uno sforzo coraggioso di definizione di una nuova governance europea capace di coniugare la stabilità con la crescita e la coesione. E’ responsabilità di tutte le forze politiche dare piena consapevolezza del valore dell’integrazione europea alle opinioni pubbliche. E noi del Partito Democratico sentiamo il dovere di combattere e contrastare le derive antieuropee e populiste a cui anche l’Italia rischia di essere esposta.

I. UN GOVERNO ECONOMICO EUROPEO La costruzione di un “governo economico europeo” è assolutamente indispensabile per difendere l’euro, ricominciare a crescere, creare occupazione e mettere al sicuro l’Unione e ogni suo paese da future crisi economico-finanziarie. Perché tale governance sia efficace occorre superare il semplice coordinamento delle politiche nazionali, oggi del tutto insufficiente. Oggi l’Europa è zoppa, con una moneta unica e un mercato unico, ma con politiche economiche, fiscali e sociali tarate sulla sola dimensione nazionale. Così l’Europa non può tenere il ritmo del nuovo mondo globale e rischia anche di compromettere quanto realizzato negli ultimi 60 anni. La stessa richiesta di più stabilità e più controlli, che viene anzitutto dalla Germania, richiede un vero “governo economico comune” capace di intervenire su tre dimensioni: una gestione condivisa delle emergenze; una politica per la crescita, l'occupazione e l'inclusione sociale; la messa a punto di strumenti finanziari adeguati per sostenere la propria azione. Ed è in vista di questi obiettivi che indichiamo le proposte che seguono. 1. Costituire un Fondo Monetario Europeo.

La stabilizzazione dell'Euro con la proposta del Piano da 750 miliardi rappresenta un primo passo importante, soprattutto per la previsione di una tranche di 60 miliardi che potrà essere finanziata con emissione di titoli europei. Quel piano costituisce tuttavia un accordo ad hoc, in grandissima parte intergovernativo basato su prestiti bilaterali tra Stati - ed è una risposta d’emergenza. Serve uno strumento permanente di gestione delle crisi – il Fondo Monetario Europeo – che vigili sulla stabilità finanziaria, agisca da prestatore di ultima istanza e si autofinanzi tramite la sua attività di prestito. 2. Rafforzare e ampliare il Patto di stabilità e crescita Stabilità finanziaria e crescita costituiscono due dimensioni inscindibili. Servono maggiori controlli nelle politiche di bilancio e sanzioni più efficaci per chi vi deroga. Ma da sole non bastano e di per sé finirebbero per condannare l’Europa al ristagno. Vanno utilizzate anche politiche di correzione degli squilibri di competitività all’interno della zona euro e di sostegno della domanda interna. Essenziale per una vera e governata stabilità è la proposta del ‘semestre europeo’, nel quale, all’inizio di ogni anno, i paesi membri e la Commissione discutano delle principali scelte di bilancio nazionali, per sviluppare priorità comuni e azioni convergenti nei bilanci nazionali e europeo. E parallelamente proponiamo che il nuovo patto di stabilità e crescita assuma come parametri – accanto a deficit, debito pubblico e inflazione – anche i tassi di occupazione, produttività e inclusione sociale. 3. Far crescere l’Eurogruppo Occorrono nuove capacità decisionali comuni: rafforzamento istituzionale dell’Eurogruppo, ‘cooperazioni rafforzate’, più forte coordinamento delle politiche economiche nell’area dell’euro, rappresentanza unitaria della zona dell’euro nel G8, G20 e nelle istituzioni multilaterali. La creazione di un governo economico europeo richiede anche un'adeguata innovazione istituzionale, che punti a rafforzare l'integrazione tra la sua dimensione comunitaria e quella intergovernativa. Per questo, sul modello dell'Alto Rappresentante per la politica estera, proponiamo di affidare un "doppio cappello" al Commissario per gli affari economici e monetari, che svolgerebbe così le funzioni di vicepresidente della Commissione europea e di Presidente dell'Ecofin e dell'Eurogruppo, sulla base delle indicazioni provenienti dalla "commissione speciale crisi" del Parlamento europeo. 4. Lanciare un Piano Europeo per il lavoro e la società della conoscenza La più efficace terapia per risanare i conti pubblici é tornare a crescere. Una strategia che deve passare innanzi tutto attraverso lo sviluppo del sistema produttivo e del mercato interno europeo. Abbiamo bisogno di nuovi investimenti a lungo termine in aree come le infrastrutture europee (anche immateriali come la digitalizzazione e la banda ultralarga), l’energia, la difesa e valorizzazione dell’ambiente, la ricerca, la protezione della salute. Proposte contenute anche nel recente Rapporto Monti sul mercato unico europeo e nella nuova Strategia Europa 2020 con cui realizzare obiettivi strategici quali l'innalzamento della partecipazione al mercato del lavoro - in particolare di giovani e donne - la riduzione della disoccupazione strutturale, la creazione di occupazione di qualità attraverso la formazione continua, la valorizzazione del capitale umano, l'aumento verso il 3% del PIL degli investimenti in istruzione e ricerca. E’ altresì urgente attuare il quadro europeo del riconoscimento reciproco delle qualifiche professionali, considerando che oggi la mobilità dei lavoratori all'interno dell'Ue è al di sotto del 3%. 5. Creare nuove fonti di finanziamento dei beni pubblici europei: infrastrutture, energia e ambiente, ricerca La ineludibile riduzione della spesa pubblica nazionale dovrà necessariamente accompagnarsi a un aumento del bilancio europeo e delle spese comuni per investimenti. Per questo va rivista la struttura del bilancio comunitario, che risente troppo del peso del passato. L'obiettivo strategico é una ridefinizione delle prospettive finanziarie dell'Unione e del bilancio comunitario che porti il bilancio al 2% del PIL. Parallelamente, occorre finanziare investimenti in beni pubblici europei, attraverso l'emissione di Eurobond, e proporre nuovi modelli di finanziamento come i partenariati pubblico-privato, prestiti e garanzie della Banca Europea degli Investimenti e della Banca Europea per la Ricostruzione e lo Sviluppo. 6. Completare il mercato interno, anche sul piano del coordinamento fiscale e del nuovo regime di regolazione e vigilanza di tutti i mercati finanziari europei Il mercato unico va ulteriormente sviluppato e completato in molti comparti a partire dai servizi sia per le imprese sia al consumo. Il percorso di completamento del mercato unico deve proseguire nella direzione indicata nella Relazione Monti, in particolare per quanto riguarda la legislazione in materia di azione collettiva a difesa dei consumatori, di accesso ai servizi bancari di base, lo statuto e il regime per le piccole e medie aziende, l'armonizzazione della tassazione sulle imprese attraverso l'introduzione di una base imponibile consolidata comune per evitare dumping sociale e delocalizzazioni strumentali, un'armonizzazione dell'IVA che riduca l'impatto sul lavoro delle politiche fiscali nazionali.

Va finalmente avviato un vero coordinamento fiscale per evitare la deleteria concorrenza fiscale tra paesi e applicare a tutti i mercati finanziari, bancari e assicurativi nuovi meccanismi di regolazione e vigilanza comuni, sanzionando duramente tutti gli abusi. Dobbiamo lottare contro le speculazioni finanziarie sostenendo a livello europeo e globale (G 20) tassazioni sulle transazioni più rischiose. 7. Un Autorità europea unica responsabile della vigilanza dei mercati finanziari Tra le cause della crisi c’é sicuramente una dannosa deregulation, finanziaria e creditizia, che ha caratterizzato i mercati nell'ultimo decennio combinata con l'incapacità dell'industria bancaria di sapersi autoregolamentare. Per questo è fondamentale che la vigilanza dei mercati finanziari e dei suoi attori sia portata a livello europeo e non più lasciata alle singole autorità di vigilanza nazionali, andando in direzione di una Agenzia di rating europea. 8. Riformare le politiche di coesione Nell'impegno per la crescita economica, l'inclusione sociale e la convergenza territoriale, l'Europa può contare sullo strumento delle “politiche di coesione” che, nonostante i limiti emersi in questi anni, continuano a rappresentare un modello efficace di gestione condivisa degli interventi per lo sviluppo dei territori, a partire dai più deboli. L'Ue ha bisogno oggi di una politica di coesione rafforzata e più ambiziosa. Una riforma profonda e concreta della politica di coesione doterebbe l'Europa di una vera e propria politica di sviluppo capace di apportare un valore aggiunto rispetto alle singole politiche nazionali, non solo perché realizza un principio di solidarietà territoriale, ma anche perché consente il perseguimento di obiettivi di sviluppo condivisi. Un contributo prezioso alle politiche di coesione può venire da un uso sostenibile delle risorse, rafforzando la competitività dei territori. Le future politiche agricole e di sviluppo rurale dovranno rappresentare una leva importante per affrontare grandi sfide dal cambiamento climatico alla salvaguardia della biodiversità, dalla sicurezza alimentare allo sviluppo equilibrato dei territori rurali dell'Unione. 9. Inclusione, lotta alla povertà; reddito minimo europeo La crisi in corso ha dimostrato il ruolo decisivo di stabilizzazione svolto dai sistemi di welfare nella società europea. Il rilancio dell'economia sociale di mercato é per noi un obiettivo fondamentale che richiede politiche comuni e mirate per l'inclusione sociale e la lotta alla povertà. Servono in primo luogo politiche attive per il lavoro che contrastino la precarietà e la proliferazione del lavoro atipico, i quali, non garantendo i diritti e la sicurezza sociale, danno luogo alle nuove forme di povertà che colpiscono anche i lavoratori attivi. Servono strumenti efficaci per riaffermare la dignità della persona e garantire i diritti di cittadinanza a livello nazionale ed europeo. Per questo ci siamo impegnati a chiedere una direttiva quadro che renda obbligatoria l'introduzione in tutti i Paesi membri di schemi di reddito minimo volti ad assicurare un reddito pari almeno al 60% del reddito nazionale medio equivalente, accompagnato da misure per l'accesso facilitato ai servizi pubblici quali alloggio, assistenza sociale e sanitaria, formazione e da politiche specifiche per l'accesso al mercato del lavoro. Va ripensato il sistema di welfare e della previdenza per tutelare soprattutto le nuove generazioni e creare opportunità di conciliazione tra famiglia e lavoro, a cominciare dal Libro Bianco sulla previdenza annunciato dalla Commissione.

II. EUROPA ATTORE GLOBALE Se l’UE vuole superare la sua crisi di identità, non può eludere il rapporto tra globalizzazione e integrazione europea. Per almeno quarant’anni il processo di integrazione europea ha potuto svilupparsi in modo autosufficiente. La globalizzazione, infatti, era nella sua fase iniziale e le sue dinamiche non penetravano così fortemente nella vita dell’Europa. Nell’ultimo decennio invece la globalizzazione ha conosciuto una continua accelerazione. La globalizzazione ha cambiato e cambia ogni giorno il volto del pianeta, i caratteri dello sviluppo, i rapporti tra le aree di mercato, il destino di popoli e nazioni. E, dunque, oggi l’UE deve fare questo salto: pensarsi non come autosufficiente, ma come soggetto che agisce in un mondo più grande e con politiche definite tenendo conto delle dinamiche, dei vincoli e delle tendenze dell’economia globale.

Da qui deriva la necessità di mettere in campo un multilateralismo che su tutti i temi cruciali – la sicurezza e la stabilità politica, la globalizzazione economica, i mutamenti climatici e ambientali, i flussi migratori – sia capace di individuare soluzioni comuni e di associare tutte le nazioni a responsabilità condivise. Dare una governance multilaterale adeguata alla globalizzazione - riformando e rafforzando le istituzioni globali, a partire dall’ONU - richiede che si compia con convinzione anche la scelta di un forte investimento sul rafforzamento delle istituzioni di cooperazione regionale. Non appare, infatti, davvero realistico pensare ad una governante globale incardinata su poche istituzioni di carattere mondiale e su 200 Stati nazionali, quando ormai non vi è questione significativa che non abbia dimensione continentale e subcontinentale. E se si vogliono fare significativi passi in avanti verso una governance globale più efficace, è decisivo investire sul rafforzamento delle istituzioni regionali dotandole di poteri, risorse e competenze che consentano di realizzare politiche di integrazione, di sviluppo e di coesione. E l’Unione Europea è il luogo del pianeta dove la costruzione di un’istituzione sovranazionale forte è più avanzata e ha dunque la responsabilità di essere soggetto attivo della globalizzazione e del multilateralismo. All’Unione Europea – che da più di 60 anni riunisce i più leali alleati degli USA spetta la responsabilità di cogliere le opportunità offerte dalla nuova politica estera del Presidente Obama sostenendo e accompagnando gli Stati Uniti nel passaggio dall’unilateralismo ad un nuovo multilateralismo. E, in un mondo più grande e multipolare, Europa e Stati Uniti sono chiamati ad affermare i propri comuni valori occidentali, non in conflitto e in antagonismo con le altre culture e civiltà del pianeta, ma nella costruzione di un mondo in cui ogni identità possa essere riconosciuta e ogni persona sia sicura dei suoi diritti e delle sue libertà. Peraltro i grandi paesi emergenti della nuova economia globale guardano all’UE come ad un interlocutore essenziale con cui condividere un nuovo assetto multipolare del mondo. E l’Europa deve sentire la responsabilità di aprire una nuova stagione di relazioni tra paesi industrializzati e paesi emergenti, tra paesi produttori e paesi consumatori, tra paesi ricchi e paesi poveri. Sbloccare i negoziati commerciali di Doha, costruire un nuovo partenariato con l’Africa, dare impulso alla cooperazione con le altre istituzioni di integrazione regionale – a partire da Mercosur e Unione Sudamericana – è essenziale per dare alla crisi finanziaria risposte costruite con il pieno coinvolgimento del più gran numero di paesi. E’ responsabilità a cui l’Unione Europea non può e non deve sottrarsi. Non solo, ma la centralità assunta da temi planetari – la lotta al terrorismo, i grandi mutamenti climatici, i più intensi flussi migratori, la competizione economica su scala globale, la gestione delle materie prime e degli scambi, la lotta alla criminalità transnazionale – sollecitano l’Unione Europea a non rinchiudersi in sé stessa e, invece, ad agire, come un “attore globale” assumendosi tutte le responsabilità – politiche, economiche e anche militari – che tale ruolo comporta.

III. UN’EUROPA DEMOCRATICA Bruxelles è più lontana dai cittadini di quanto lo siano Roma, Londra, Parigi, Berlino o Varsavia. E le istituzioni comunitarie non hanno alle spalle quel vissuto storico che consenta ai cittadini di identificarsi con la stessa naturalezza e intensità con cui si riconoscono nelle istituzioni politiche nazionali. Mettere in campo una riforma democratica dell’Unione è, dunque, una necessità. Il Trattato di Lisbona offre gli strumenti per un tale salto di qualità: l’iniziativa popolare europea, che consente ad un milione di cittadini europei, di un certo numero di Stati membri, di invitare la Commissione a presentare proposte; le consultazioni e il dialogo con la società civile, le parti sociali, il mondo associativo, le organizzazioni religiose e non confessionali; le nuove politiche per la cittadinanza e i diritti fondamentali in un vero spazio di giustizia, libertà e sicurezza; i nuovi poteri di controllo dei parlamenti nazionali sul rispetto del principio di sussidiarietà; il diritto di proposta per i parlamenti nazionali. E anche i partiti politici devono ripensare il loro ruolo e il loro modo di fare politica europea: a livello nazionale, il PD collocherà tutte le sue proposte in una più ampia dimensione europea; a livello europeo - muovendo dalla originale e positiva esperienza del gruppo parlamentare dell’Alleanza progressista dei Socialisti e dei Democratici - agiremo perché i gruppi e i partiti politici europei assumano pienamente le loro responsabilità e divengano protagonisti della costruzione dell’Europa politica, oggi ancora in mano unicamente ai governi. Certo, un’Europa che entro pochi anni potrà essere di 35 membri corra il rischio di una difficile coesione. Per questo la forma delle “cooperazioni rafforzate” va incoraggiata, consentendo ai paesi che lo desiderano di realizzare forme di integrazione via via più avanzate. Naturalmente le cooperazioni rafforzate devono essere sempre aperte ad adesioni successive e va mantenuto in ogni caso un “quadro istituzionale unico”, garanzia essenziale di coesione politica e istituzionale dell’Unione intera. Ma soprattutto l’Unione deve ritrovare smalto e offrire ai cittadini quelle certezze che le consentano di essere nuovamente percepita come conveniente e protettiva. E ciò può avvenire solo se si rilanciano le politiche di integrazione sui temi cruciali per la vita di milioni di persone. Serve prima di tutto una strategia per la crescita lungo le proposte avanzate nella prima parte di questa nota. Non meno rilevante è che l’UE consolidi e rafforzi le politiche per la cittadinanza: lo spazio di giustizia, le politiche di immigrazione e di libera circolazione, la lotta alla criminalità, la sicurezza individuale dei cittadini. Temi cruciali su cui, in questi anni, è spesso maturata una crisi di fiducia verso l’Unione. Per questo diventano non più rinviabili il rafforzamento di Europol, il funzionamento di Eurojust, l'istituzione della figura del Procuratore europeo, la definizione di un quadro comune di leggi in materia di lotta alla criminalità organizzata, le mafie e il riciclaggio del denaro proveniente da attività illecite. Gli obiettivi di sviluppo della strategia 2020 non possono peraltro prescindere dalla sfida demografica e dall'invecchiamento della popolazione dell'Unione. In questo senso una politica europea di immigrazione deve svolgere un ruolo decisivo - in particolare, attraverso la definizione di norme europee per l'ingresso e il soggiorno regolare dei cittadini di paesi terzi e per la lotta all'immigrazione irregolare - nella promozione sia della crescita economica che dell'inclusione e dell'integrazione dei lavoratori migranti, cui va garantito uguale accesso ai diritti sociali e previdenziali legati al lavoro.

IV. UN’EUROPA POLITICA, UNITA E FEDERALE Un rilancio forte delle politiche di integrazione interna, deve accompagnarsi ad un rilancio della dimensione politica e istituzionale dell’Unione. Un’Europa capace di cogliere le opportunità offerte dal Trattato di Lisbona: l’estensione delle materie a cui si applica il voto a maggioranza; i maggiori poteri di codecisione del Parlamento Europeo; la riforma della Commissione; un potere di proposta dei Parlamenti nazionali; l’istituzione di una Presidenza permanente del Consiglio Europeo; un Ministro degli Esteri europeo – dotato di un servizio diplomatico proprio – che consenta all’UE di dare corpo e voce ad una politica estera e di sicurezza comune. Riforme che possono consentire all’Unione di fondare la sua maggiore forza non solo sulla cooperazione intergovernativa, ma anche sull’ulteriore sviluppo di politiche di comunitarizzazione.

In tale contesto è essenziale il rafforzamento della proiezione dell’UE ad est e a sud. E’ per noi scelta prioritaria il completamento del percorso di integrazione della Croazia – che ci auguriamo avvenga nei tempi più brevi - e dei Balcani occidentali, la cui definitiva stabilizzazione – dopo anni di guerre e conflitti aspri – non potrà che derivare da una piena appartenenza all’UE di tutti i paesi della regione. Pur consapevoli delle difficoltà e delle ostilità verso la Turchia, continuiamo a essere convinti che si debba andare nella direzione di una inclusione europea di Ankara e che questo obiettivo sia strategico per la stabilità dell’Europa e per quella vasta area che si estende dal Mediterraneo al Golfo Persico. L’istituzione nel 2009 dell’Unione Euromediterranea offre una straordinaria opportunità per rilanciare le politiche di cooperazione, dialogo e integrazione dell’UE con i Paesi del Bacino mediterraneo e di aprire una nuova stagione di dialogo e cooperazione con quel mondo islamico percorso in modo sempre più evidente da una dialettica tra forze riformatrici e correnti integraliste. Strategiche sono altresì le “politiche di vicinato” con quei paesi che stanno ai confini della UE, a partire dalla responsabilità europea di farsi garante della piena sovranità delle nazioni caucasiche e dell’Ucraina. E’ coerente con questo impianto agire perché l’Unione Europea prosegua e sviluppi con la Russia quei rapporti di partenariato e cooperazione utili ad una inclusione di Mosca nella vita della comunità internazionale e a una piena attuazione da parte della Russia dei principi che regolano la legalità internazionale e il rispetto dei diritti umani e civili. L’insieme di queste scelte ci porta, infine, a sottolineare la necessità che l’UE sia fino in fondo partecipe delle politiche per la sicurezza e la stabilità del continente e del mondo. Se, per un lungo periodo, l’Europa è stata consumatrice di sicurezza prodotta da altri – gli USA – oggi all’UE spetta la responsabilità di essere coproduttrice e compartecipe della sicurezza comune. Ed è per questo che il Partito Democratico sostiene con convinzione il ruolo e la presenza militare che l’UE e i suoi paesi membri sono venuti svolgendo, su mandato ONU, dai Balcani al Libano all’Afghanistan. E ancora una volta vogliamo esprimere il pieno apprezzamento per la generosità e la competenza con cui le nostre Forze Armate assolvono il loro compito di pace e di stabilità.

Non contraddice quella nostra scelta l’insistere sulla necessità che a quei conflitti si diano soluzioni politiche fondate sulla condivisione e sul negoziato. Perché in politica l’uso della forza può essere necessario, ma per aprire la strada alla politica e non per sostituirla. Così è stato nei Balcani dove la presenza militare Nato ha consentito di dare attuazione agli accordi di Dayton. Così in Libano, dove la presenza del contingente multinazionale guidato dall’Italia ha fatto cessare il fuoco delle armi e restituito parola alla politica. E così deve essere in Afghanistan, il teatro certo oggi più critico e dove ogni giorno la NATO e i suoi paesi, tra cui l’Italia, pagano un doloroso tributo di sangue. Lì, ancora di più, l’impegno militare NATO deve essere accompagnato da una adeguata strategia di democratic istitution bulding e di ricostruzione civile e economica, che acceleri il trasferimento delle responsabilità a istituzioni democratiche afghane. In ogni caso la stabilità e la sicurezza sono oggi una priorità che richiede un impegno in prima persona dell’UE. La NATO resta naturalmente la principale organizzazione politico-militare per la sicurezza e la stabilità, e non solo per l’Europa. E il Partito Democratico considera il legame transatlantico un pilastro della politica estera europea e italiana. Al tempo stesso vi è una crescente complementarietà tra politiche di sicurezza dell’UE e funzione della NATO. Ed è per questo che vanno incoraggiate forme di “cooperazione rafforzata” tra quei paesi membri dell’Unione pronti ad assumere responsabilità comuni nel campo della difesa e della sicurezza.

Insomma è nostra ferma e piena convinzione che l’Europa uscirà dalle sue difficoltà e sarà all’altezza delle sfide che ha di fronte solo se non ridurrà le sue ambizioni e aprirà una nuova grande stagione della integrazione europea, dandosi politiche e strumenti per una visibile e forte governante economica, sociale e politica. La scelta non deve essere l’Europa minima indispensabile, ma l’Europa massima possibile. Dalla crisi si esce non con meno, ma con più Europa.

Roma, 20 maggio 2010

Assemblea del 21-22 maggio - Green economy

Perché la green economy

L’economia verde è l’unica vera opportunità per uscire da due grandi crisi, quella climatica e quella economica, per lasciare un mondo vivibile alle generazioni future, per costruire sviluppo e creare nuovi posti di lavoro tenendo conto del vincolo delle risorse naturali. L’economia verde è quindi una via di sviluppo che può consentire di rilanciare su basi nuove e più solide l’economia che non può tornare su precedenti modelli di crescita alimentati a debito e con un consumo insostenibile di risorse naturali. Nel nostro paese l’economia verde si incrocia con la qualità, la coesione sociale, la ricchezza dei territori; un incrocio che può rendere più competitive le nostre imprese e che è alla base della forza del nostro paese. L’economia verde incrocia trasversalmente ogni settore produttivo, ha i suoi cardini nel risparmio energetico, nell’efficienza energetica, nell’uso di fonti rinnovabili di energia, nelle tecnologie e nelle innovazioni che riducono l’impatto ambientale dei processi produttivi e può applicarsi all’edilizia come alla meccanica, alla chimica come all’agricoltura, al tessile come al turismo di qualità. La scelta della sostenibilità ambientale nei processi produttivi può andare di pari passo a scelte di consumo responsabile, per rendere minimo l’uso di risorse naturali anche nei nostri acquisti di ogni giorno con una preferenza ad esempio per i prodotti locali o per quelli con imballaggi minimi. Dunque, una prospettiva solida per l’Italia fondata sulla qualità e sul valore del made in Italy, sulla ricerca, sulla conoscenza, sulla bellezza dei nostri territori, sulla nostra storia, sulla ricchezza del nostro ambiente.

L’economia verde al centro delle politiche industriali

La riconversione ambientale dell’economia può rappresentare una vera discontinuità, un vero balzo in avanti, quello che l’elettrificazione, le telecomunicazioni, la rivoluzione informatica hanno rappresentato tra fine ottocento e novecento. La costruzione di una società a basso contenuto di carbonio è una prospettiva già in parte in atto, sulla quale le imprese italiane si sono incamminate pur in assenza di un quadro di regole stabili e di incentivi certi. L’economia verde deve essere protagonista di un disegno di sviluppo del paese come concepita nel programma Industria 2015 che va rafforzato e aggiornato ai prossimi anni. C’è il rischio concreto che la crisi economica in Italia non sia solo un fenomeno congiunturale, e quindi un calo a cui segue in modo quasi automatico un rimbalzo positivo, ma si traduca piuttosto in una riduzione della struttura produttiva del paese. È un rischio molto grave, che segnerebbe un impoverimento strutturale e che va contrastato con forza e grande tempestività, sorreggendo con un disegno chiaro di politica industriale linee e settori di possibile sviluppo, privilegiando la chiave dell’economia verde, come hanno già fatto con investimenti consistenti Stati Uniti, Germania e Cina tra gli altri. Non si può pensare di uscire da una crisi arroccandosi in una posizione difensiva, senza investire nel futuro, senza affrontare quegli adeguamenti che possono mettere il nostro sistema produttivo di grado di competere con gli altri.

Favorire l’economia verde è una vera politica nazionale

La sfida dell’economia verde è una sfida per l’intero paese, per la struttura produttiva del nord e per la crescita del sud. Proprio nel mezzogiorno potrebbero realizzarsi i maggiori guadagni in termini di occupazione e di capacità produttiva. Fin qui il Mezzogiorno ha avuto i vantaggi minori dal processo di industrializzazione del secolo scorso ma ha comunque subito costi ambientali notevoli. E in più nelle regioni meridionali risiede la quota più giovane della popolazione italiana, la quota maggiore degli inattivi, la quota maggiore di donne che non partecipano al mercato del lavoro. L’economia verde può diventare nel Sud un elemento catalizzatore della catena di connessione tra ricerca innovazione e produzione per esprimere al meglio le potenzialità del sistema universitario e di ricerca e del patrimonio territoriale. Nelle regioni meridionali, accanto a un rinnovato slancio dell’agricoltura di qualità e del turismo e della salvaguardia quindi del patrimonio storico e paesaggistico, può realizzarsi uno sviluppo importante nella produzione di energia da fonti rinnovabili, con il solare in prima fila, nell’efficienza energetica, nella riqualificazione edilizia soprattutto nelle aree urbane.

Efficienza energetica e fonti di energia rinnovabili

L’efficienza energetica è la vera fonte di energia del futuro. Ridurre il consumo di energia a parità di prodotti e servizi realizzati è la strada maestra per combattere l’emergenza climatica. Si può ottenere un minor consumo di energia negli edifici pubblici o privati, nei processi produttivi, nelle modalità di trasporto. Molto può essere già fatto con la tecnologia e con chiare indicazioni normative come avviene in altri paesi, solo a titolo di esempio in Gran Bretagna tutti gli edifici residenziali di nuova costruzione al 2016 dovranno essere a emissioni zero. Ma si deve investire di più nella ricerca in questo ambito e nella collaborazione fruttuosa tra sistema della ricerca e imprese, possono essere sviluppate quelle tecnologie pervasive che sono alla base anche dello slancio di numerosi spin off del sistema universitario locale. Altra strada maestra è nello sviluppo di energia da fonti rinnovabili e dunque eolico, solare, biomasse, energia idraulica, biocarburanti, geotermia. Possiamo darci l’obiettivo di puntare a una industria nazionale del settore, sapendo che alcuni paesi hanno già maturato esperienza e competenza e altri hanno vantaggi di costo, ma non possiamo rinunciare ad entrare in quegli spazi dell’intera filiera, inclusa la parte alta di ricerca e produzione, che sono alla nostra portata. Accumulare ulteriore ritardo sulla strada dell’efficienza energetica e dello sviluppo delle rinnovabili è un errore strategico che toglie competitività al nostro paese, alle nostre imprese.

Legalità e controlli ambientali

L’economia verde non può che essere un’economia pulita, che rispetta i diritti e le leggi. Non può esserci spazio per il malaffare e per l’uso indiscriminato del territorio e vanno quindi combattute con il massimo rigore le infiltrazioni della criminalità organizzata, che più di altri ha saputo vedere le potenzialità di espansione del settore e condiziona pesantemente la gestione dei rifiuti in molte parti del paese, e i comportamenti illegali che sono alla base dell’impoverimento del territorio e dei rischi per l’incolumità delle persone. Non può esserci spazio per nuovi condoni edilizi o per il mancato rispetto dei vincoli naturali e paesaggistici. L’ambiente va tutelato meglio anche sotto il profilo normativo, anche con la introduzione di norme specifiche che puniscano i reati contro l’ambiente. Allo stesso modo va rafforzato il sistema di controlli ambientali, garantendone autorevolezza e indipendenza. E’ possibile promuovere, come indicato a livello europeo, la collaborazione fra imprese e organismi pubblici, e quindi Ispra, Arpa e Appa, per migliorare la performance ambientale delle imprese e quindi favorire sul mercato le imprese di qualità. Vanno poi sviluppati i servizi ambientali (monitoraggio della qualità dell’aria, circolazione e produttività del mare, gestione dei sistemi costieri, monitoraggio della superficie terrestre e servizi all’agricoltura, adattamento al cambiamento climatico tra gli altri) diffondendo a livello nazionale i risultati ottenuti nell’ambito dei programmi di cooperazione europea.

Riciclo dei rifiuti

Anche qui ci vuole una discontinuità, va rovesciato un modo di vedere seguito fin qui per cui i rifiuti sono solo un problema da gestire nel modo più efficiente possibile e nel rispetto dell’ambiente e della salute. Dobbiamo imparare sempre di più a vedere i rifiuti come una risorsa in un mondo di risorse limitate e quindi immaginare distretti del riciclo, favorire lo sviluppo di industrie locali che riutilizzano i materiali resi disponibili in quantità sempre maggiori dalla promozione della raccolta differenziata per andare verso una vera e propria società del recupero. L’obiettivo rimane quello di non sprecare risorse e quindi sono prioritarie le misure che possono ridurre alla fonte i rifiuti prodotti, sviluppando ad esempio un processo innovativo per la progettazione degli imballaggi.

Il territorio è il principale patrimonio dell’economia verde

Dobbiamo incentivare la manutenzione del territorio per adattare ogni metro quadro alle sfide del cambiamento climatico, cercando, ad esempio, di trattenere l’acqua il più a lungo possibile ove cade, per attenuare l’erosione del suolo e le piene e per ricaricare le falde. Le siccità più lunghe costituiscono un maggior rischio di incendio boschivo che deve essere affrontato con lo sfoltimento del bosco. Da qui la possibilità di recupero di residui agricoli e forestali per produrre energia contribuendo al tempo stesso in modo determinante alla manutenzione del territorio. Vanno sviluppate e diffuse le tecnologie avanzate di monitoraggio, basate sull’integrazione di tecnologie in loco con tecnologie dallo spazio, diffondendo a livello territoriale i risultati ottenuti alla scala internazionale nei grandi programmi di cooperazione europea. Sono da ripristinare i fondi per la difesa del suolo e il contrasto al dissesto idrogeologico che hanno subito tagli drammatici così come vanno ripristinati i fondi per le infrastrutture a livello nazionale e cambiate le regole del patto di stabilità interno in modo da stabilizzare le spese correnti ma consentire la realizzazione di spese per investimento agganciandole ad un percorso sostenibile per i conti pubblici.

L’ambiente anche nel nuovo patto fiscale tra Stato e cittadini

La leva fiscale è uno strumento decisivo per incoraggiare comportamenti virtuosi e penalizzare chi pensa di poter continuare a scaricare il proprio tornaconto di breve periodo sul futuro di ognuno e delle nuove generazioni. Possiamo pensare a una modifica del sistema fiscale in modo da ridurre il carico su lavoratori e imprese per spostarlo sui consumi di energia e di materie prime. Il nostro paese deve inoltre partecipare in maniera più attiva al dibattito aperto in sede europea e mondiale su ipotesi di imposte sulle emissioni di co2 legate ai prodotti, una sorta di tassa ambientale per favorire le produzioni più attente nel rispetto dell’ambiente. Allo stesso modo devono essere resi stabili e certi gli incentivi fiscali per la riqualificazione energetica e la messa in sicurezza sismica degli edifici così come il credito di imposta per la ricerca.

Assemblea 21-22 maggio - Università e ricerca

Le nostre proposte

1) Shock Generazionale: ringiovanire la classe docente (età media più bassa di dieci anni in dieci anni), investire sui ricercatori con percorsi rapidi e chiari. Eliminare il blocco del turn-over e anticipare la data di pensionamento a 65 anni (con contratti di ricerca o didattica per i docenti in pensione). Per i ricercatori, nuovi concorsi per i primi 6 anni, dotazioni di start-up e riduzione del divario dello stipendio con gli ordinari. Spazi di liberalizzazione dei compensi con incentivi legati alla qualità dell’insegnamento, valutati con peer review. Contratto unico per i ricercatori in formazione, con diritti sociali, previdenziali ed economici certi.

2) Erasmus in Italia, per la mobilità geografica e la mobilità sociale: a) un diritto allo studio “mobile”, con il potenziamento delle residenze universitarie (da legare alla conversione degli uffici sfitti) e i contributi all’affitto per studenti fuorisede; b) credito (voucher) di studio universale: un contributo che copre il costo dei servizi, rinnovato in base ai risultati (agevolato per gli studenti lavoratori); c) opportunità e responsabilità: nell’orientamento, un liceale deve sapere dove andare per prepararsi al meglio, e uno studente deve sapere che, se andrà fuoricorso, le sue tasse aumenteranno, costituendo un fondo i più meritevoli.

3) Istituzione dell’Agenzia per la ricerca e l’innovazione e di un Piano nazionale della ricerca per superare la frammentazione ministeriale. Un modello di agenzia innovativo, nella forma e nei contenuti: ruolo di analisi di scenario (con comitati scientifici di alto livello e composti in modo trasparente, che lavorano gratis), programmazione e finanziamento nazionale della ricerca fondamentale, road-mapping università-politica-impresa, coordinamento dell’innovazione nella PA.

4) Efficienza e investimenti: a) raggiungere in dieci anni la spesa media degli altri Paesi europei (dallo 0,8% all’1,3% del PIL); b) detassare le donazioni e gli investimenti privati per le università; c) progressiva attribuzione delle risorse ordinarie in base a pochi criteri (e dunque non esclusivamente alla spesa storica o alla dimensione): scelta degli studenti; valutazione di didattica e ricerca; coesione territoriale; obiettivi-paese; d) intervenire sui rapporti tra Università e sistema sanitario, a partire dalla ripartizione dei costi e la gestione dei servizi di assistenza clinica.

5) Piano strategico del sistema universitario italiano: programmazione strategica per definire il futuro dell’università regione per regione, che orienti gli accordi di programma, la concentrazione delle risorse e la differenziazione responsabile del sistema. Usiamo la leva della valutazione per chiarire che non tutti gli atenei possono fare tutto: alcuni dipartimenti o facoltà saranno focalizzati sulle lauree triennali e magistrali, alcune università saranno orientate alla ricerca. Federazione di atenei per definire un piano di razionalizzazione e rientro per le università in crisi.

6) Valutazione: far partire subito l’Agenzia nazionale per la valutazione dell’università e la ricerca, con un’adeguata dotazione di partenza. L’Anvur deve essere indipendente e trasparente. Proponiamo che la valutazione sia fondata su: a) ricerca universitaria, b) didattica universitaria, c) impatto dell’università sulla società, l’economia e il territorio.

7) Dalla fuga dei cervelli all’attrazione e circolazione dei cervelli. Politiche di immigrazione selettiva: a) double appointment per docenti di riconosciuta alta qualificazione; b) bandi per posizioni universitarie chiari, anche in inglese; c) istituzione di un fondo per visiting scholars e visiting professors in co-finanziamento con regioni e privati.

8) Valorizzazione del dottorato di ricerca: a) obbligatorietà per tutti i concorsi per posti da ricercatore a tempo determinato; b) premialità per i concorsi della PA; c) agevolazioni fiscali per le imprese che assumono dottorandi come consulenti; d) mettiamo il dottorato al centro di una rete tra scuole superiori e le università per un rilancio della formazione (long-life learning) per l’impresa e la pubblica amministrazione.

9) Politiche per promuovere la scienza e l’innovazione: a) coordinare programmi specifici per le scuole con le regioni; b) dedicare una quota di programmi RAI alla scienza e all’innovazione; c) attivare corsie preferenziali per le borse di studio degli studenti delle facoltà scientifiche e per il finanziamento dei progetti di ricerca in settori strategici.

10) Una rete idee/impresa per creare valore con la ricerca: a) agevolazioni per il venture capital e start-up school per portare la cultura imprenditoriale nella scuola e nella ricerca; b) connessione continua tra impresa e ricerca nella formazione, anche con e-learning; c) rilancio del piano dei distretti industriali con una programmazione nazionale chiara e trasparente, di concerto con le regioni.



La nostra visione

Premessa. La vera emergenza italiana è la ricerca, la ricerca parte dall’Università.

La vera emergenza italiana è la ricerca, con gravi conseguenze strategiche, sociali e morali. La crisi economica – prima negata dal governo, poi usata per giustificare tagli inaccettabili – ha messo in luce i nodi irrisolti del modello di sviluppo italiano. L’Italia è una nazione in ritardo: durante una congiuntura favorevole cresciamo meno dei già lenti partner europei, durante un periodo di recessione la nostra decrescita diventa drammatica. In Italia il governo ha bruciato preziose risorse - parliamo di molti miliardi di euro - per interventi improduttivi e sprechi inauditi, da Alitalia alle “grandi opere”. Non esiste nessuna programmazione strategica. Non esiste nessun piano per uscire dalla crisi con un nuovo modello di sviluppo e per affrontare i nostri problemi strutturali. Senza una svolta, non potremo agganciare quella crescita che, come ha ricordato il Presidente della Repubblica, è fondamentale per garantire la stessa unità del Paese. A causa dei tagli del governo, l’Italia si avvia a diventare la più insignificante periferia dei nuovi imperi della conoscenza.

Cominciamo da una seria autocritica: le politiche dei governi di centrosinistra non sono esenti da colpe. Ora guardiamo avanti, con una forte discontinuità, con coraggio e contro ogni conservatorismo. Abbiamo bisogno di una svolta radicale di innovazione. Anzi, di una rivoluzione. A partire dall’università, che è la sede primaria della formazione, della ricerca, dell’elaborazione e della trasmissione del sapere, e dal sistema degli enti di ricerca. Sono questi i luoghi prioritari dell’interazione tra tecnologia e innovazione e tra settore pubblico e privato. L’obiettivo è costruire un’università innovativa, che valorizzi i punti di forza della nostra cultura e del sistema produttivo, e che sappia allo stesso tempo competere con gli altri Paesi, connettere l’Italia con l’estero e attrarre immigrazione altamente qualificata. Per favorire la coesione e la competitività, dobbiamo intervenire su tutti gli attori del sistema. E avere chiare le strategie per guidare gli investimenti, la programmazione, per sostenere la mobilità sociale e quella territoriale, la cultura scientifica e l’imprenditorialità; per stipulare patti chiari con gli studenti, i ricercatori e gli atenei per l’utilizzo delle risorse e per conseguire maggiore efficienza basata sull’autonomia responsabile e sulla valutazione.

I. La rivoluzione della ricerca.

1. La nuova ricchezza delle nazioni.
Guardiamo in faccia la realtà. Mentre la conoscenza corre, la politica rallenta. Assistiamo alla rivoluzione geopolitica operata da un nuovo protagonismo asiatico, evidente dall’alto rapporto tra investimenti e PIL, dall’alto numero di brevetti registrati, dalla crescita di macroregioni dedicate all’innovazione e alla tecnologia. L’Europa rilancia la Strategia 2020, per una crescita economica basata su conoscenza, creatività, innovazione, sviluppo sostenibile e integrazione sociale. La ricchezza delle nazioni si misura non solo sul denaro, ma sulla capacità di apprendimento e sulla condivisione della conoscenza: questa è la sentenza senza appello emessa dal tribunale della crisi, il nuovo paradigma che percorre l’intero sistema economico. Dobbiamo andare con coraggio oltre la crisi, evitando mere operazioni difensive. Abbiamo bisogno di scelte politiche strategiche che superino i tradizionali veti incrociati dei gruppi d’interesse e le politiche localistiche. Se l’Italia, che già si trova in forte difficoltà (lo dicono i dati OCSE, Human Development Report, Global Competitivess Index, European Innovation Scoreboard), non mette in cima alle sue priorità gli investimenti in conoscenza, in ricerca e sviluppo, nel settore pubblico e nel settore privato, è semplicemente spacciata. La ricerca è la vera “grande opera” che può unire le generazioni, e perciò deve diventare protagonista del circuito della formazione, nel dibattito pubblico e nella cultura diffusa. È giunto il momento di promuovere lo studio e la divulgazione della scienza e della tecnologia.

2. Un’economia dell’apprendimento.
Siamo in coda tra i paesi europei per investimenti, numero di laureati e di ricercatori, apertura del sistema all’esterno. La media degli studenti stranieri nei nostri atenei è soltanto il 2%. Mentre il governo italiano straparla di “merito” e taglia del 20% i fondi per l’università, rischiando di impedire il funzionamento degli atenei, nel mondo si afferma un’economia dell’apprendimento, che misura la propria efficienza sulla capacità continua di evolversi e di innovare e sulla capacità di attrarre talenti. Per andare veramente oltre la crisi, dobbiamo costruire le infrastrutture della conoscenza e impostare una programmazione precisa delle politiche della ricerca. L’esempio da seguire è la Hightech-Strategie della Germania, che individua con chiarezza le priorità di investimento e le modalità di destinazione delle risorse. Inoltre, regole chiare per la ripartizione delle risorse e apertura del sistema alla differenziazione: non tutti devono fare tutto allo stesso modo, né sono in grado di farlo. Proponiamo la creazione di un’Agenzia nazionale indipendente per il finanziamento della ricerca pubblica, con la responsabilità di un’analisi della società del futuro, attraverso un Gruppo di riflessione strategica indipendente sul modello del Rapporto 2020 del Ministero degli Esteri e con il coinvolgimento dei principali attori italiani dell’innovazione (università, piccola impresa, industria, imprese ad alto impatto tecnologico, ricerca, venture capital). Il Gruppo, coinvolto in modo gratuito in uno sforzo di responsabilità, avrebbe il compito di stabilire con chiarezza le priorità (nel primo rapporto) e l’allocazione di risorse (nei rapporti successivi) per i settori strategici (a partire da innovazione della pubblica amministrazione, , aerospaziale, biomedicale, ICT, energia, nuovi materiali, agroalimentare), riconoscendo i punti di debolezza e di forza del sistema e coordinando a partire da queste scelte gli investimenti nella ricerca fondamentale e in quella finalizzata, attraverso un rilancio del Programma Industria 2015 e del First, il fondo investimenti ricerca scientifica e tecnologica azzerato dal governo. L’Agenzia dovrebbe accelerare le procedure e garantire il rispetto dei tempi dei progetti di ricerca, e svolgere una continua attività di road-mapping università-politica-impresa. Inoltre, dovrebbe coordinare un programma di borse di studio Master and Back, dedicato agli studenti capaci e meritevoli in periodi di perfezionamento all’estero e di cooperazione internazionale nei settori strategici sopra indicati.

3. La rete tra idee e impresa: il futuro della ricerca.
Dobbiamo evitare di confinare alla parola magica della governance universitaria l’articolazione del tema, ben più ampio, del rapporto tra impresa, ricerca e università. Qualcuno ritiene che fare impresa nell’università significhi soltanto creare università private. Cambiamo prospettiva: come notato da numerosi operatori di venture capital, nel nostro Paese è debole non solo l’offerta di innovazione, ma anche la domanda da parte delle imprese. Anche in questo caso si tratta di un problema culturale e strutturale: l’Italia soffre dell’incapacità di far fruttare le idee. Se il capitale umano è la chiave per realizzare il trasferimento tecnologico, serve una nuova cultura del rischio per i ricercatori, che devono intuire le potenzialità delle loro idee ed essere messi nelle condizioni di realizzarle, anche a livello imprenditoriale. Perciò proponiamo un patto Stato-Regioni per il rafforzamento della rete di incubatori di start-up tecnologiche e la creazione di veri e propri distretti tecnologici concentrati per promuovere investimenti finalizzati in settori strategici del Paese. Proponiamo misure volte a favorire il venture capital per valorizzare i risultati della ricerca e promuovere la creazione di start-up tecnologiche, anche attraverso la defiscalizzazione degli investimenti in ricerca. Con regole chiare e stabili, e non certo con misure inaffidabili e inapplicabili e come il click-day. Come ha dimostrato David Singh Grewal, il mondo non è piatto, è connesso. Il futuro della crescita non sta nel “piccolo mondo antico” cantato dalla destra, ma nella sfida di un’Italia connessa con le idee e le intelligenze della ricerca, comprese quelle dei tanti cervelli italiani all’estero. Serve un’iniezione di realismo, perché le immagini pur vincenti nel mondo della bellezza e della cultura italiane, della gastronomia e del design non possono salvare il paese dal declino. Investire nella ricerca è la vera salvezza per il Made in Italy: solo l’innovazione può lanciare un “rinascimento digitale” per valorizzare la domanda di Italia che esiste nel mondo, anche in settori come il restauro, l’archivistica, i beni culturali.


II. Quale università per l’Italia.

4. Vocazioni, talenti, mobilità.
L’università italiana è in grave difficoltà. I dati internazionali sono impietosi: siamo agli ultimi posti, tra i paesi europei, per molti parametri: numero dei laureati e dei ricercatori, investimenti per studente, rapporto docenti/studenti, internazionalizzazione; investimenti in università. Ancor più preoccupante è la tendenza alla riduzione delle immatricolazioni universitarie dei giovani dopo la maturità: nell’ultimo anno accademico siamo a - 17.000 unità rispetto al precedente. I giovani ritengono sempre meno importante studiare, in un giudizio che riguarda anche il modello di sviluppo della nostra economia, in termini di compensi, carriera, prospettiva di vita. L’Università è ingiusta verso i giovani, perché non adempie alla sua funzione di motore della mobilità sociale. Trasmissione della ricchezza e insuperabilità della povertà sono la fotografia, ormai ampiamente condivisa, di una società iniqua e bloccata: in Italia quasi il 50% del differenziale dei redditi dei padri si trasmette ai figli (in Danimarca è il 15%, in Spagna il 32%); solo il 10% dei giovani italiani con il padre non diplomato riesce a laurearsi (in Gran Bretagna il 40%, in Francia il 35%). La tensione tra equità e merito è l’anima di una proposta progressista. Serve un’etica delle opportunità: l’opportunità di studiare e qualificarsi per i “capaci e meritevoli”, qualunque sia la loro condizione di partenza. Per questo proponiamo un credito (voucher) di studio universale, che copra il costo dei servizi degli studenti e venga rinnovato in base ai crediti acquisiti.

5. Cultura, Coesione, Competitività.
La qualità della crescita di una nazione si misura su quella del sistema universitario. I cambiamenti nell’università di oggi devono partire dagli obiettivi-Paese per i prossimi 10 anni. Per costruire un'Italia più colta, più competitiva e più coesa, abbiamo bisogno di un numero adeguato di laureati e di dottori di ricerca, di qualificare l’offerta formativa e migliorare le regole di governo degli atenei, di aprire le porte della ricerca ai giovani, di aprire il nostro sistema all’esterno. Obiettivi che erano contenuti nel DPEF 2010/2013, approvato dalla maggioranza nel 2009, ma sconfessati dal DDL Gelmini. Parole come qualità, autonomia, merito, ammantano un provvedimento del tutto diverso nei contenuti: un disegno iper-centralista, che sottopone a un reticolo inestricabile di norme e al controllo della burocrazia ministeriale ogni passaggio della vita degli atenei. Stabilizzazione dei tagli del 2008 (oltre 1 miliardo di euro, quasi il 20% in meno nel 2008 rispetto al 2011) e nessuna risorsa per gli studenti meritevoli. Già ora molti atenei non sono in gradi di assicurare il loro funzionamento e tanto meno di programmare l’attività nel prossimo anno accademico, visto che i tagli previsti per il 2011 impediranno a molti di loro persino il pagamento degli stipendi. Dobbiamo e vogliamo contrastare questa dequalificazione del sistema di formazione universitaria. Serve, dunque, un intervento incisivo e coraggioso, a partire dallo scenario e dagli obiettivi che abbiamo delineato. Si deve mirare a costruire un sistema universitario articolato, che contenga principi ispiratori e le regole-base per il suo funzionamento, e che affidi all’autonomia responsabile il funzionamento degli atenei. Trasparenza per le risorse, secondo obiettivi di coesione territoriale e competizione equa tra gli atenei, aprendo il sistema a una differenziazione fondata sulla qualità; nuova impostazione dei meccanismi della valutazione e del sistema di ripartizione delle risorse.

6. Le persone della nostra università.
Gli studenti al primo posto: orientamento, mobilità, diritto allo studio. Dobbiamo passare da un’università dove è facile entrare e difficile uscire, a un’università dove si può entrare, per rimanere bisogna studiare, si esce normalmente in corso: possibilità per gli atenei di programmare meccanismi di selezione per la permanenza dopo il secondo o terzo anno, come incentivo per mantenere il ritmo degli studi con maggiore flessibilità nell’imposizione delle tasse per gli studenti con livelli di reddito più elevati fuori corso. Uno studente deve poter scegliere l’Università più adatta al suo talento: servono parametri chiari per definire la qualità della formazione, con una valutazione per aree disciplinari dinamica (il miglioramento nel livello di conoscenza e di comprensione conseguito negli anni di corso), in cui le scelte degli studenti saranno il primo dei criteri di valutazione in base ai quali ripartire le risorse ordinarie agli atenei. Il diritto allo studio significa, anche, diritto alla mobilità geografica: serve un Erasmus in Italia, con politiche di residenze e affitto agevolato per gli studenti fuorisede. Concretamente, proponiamo di agire sull’enorme patrimonio di uffici sfitti delle nostre città, favorendo la costituzione di agenzie immobiliari sociali che, trasformando gli uffici in residenziale, offrano affitti calmierati. Infine, con le nostre proposte, il dottorato di ricerca uscirà dall’attuale “stato di minorità”. Ricercatori e docenti: shock generazionale, patti chiari e diritti. Abbiamo la classe accademica più anziana del mondo occidentale. Proponiamo lo sblocco del turn over e il pensionamento a 65 anni, destinando le risorse “liberate” all’assunzione di nuovi docenti. Patti chiari per chi, dopo il dottorato, entra nell’università come ricercatore. Un vero percorso di ruolo (tenure-track), che riserva una posizione di docenza, al termine del primo periodo contrattuale di tre anni, a coloro che superano una selezione e che hanno a disposizione un secondo triennio durante il quale conseguire un’abilitazione. Il ricercatore che abbiamo in mente è anche un “professore in prova” che non deve, però, essere sacrificato alla didattica, e deve poter disporre di fondi di ricerca e spazi concreti di autonomia. Per i ricercatori attuali, a tempo indeterminato e determinato, un’adeguata quota di concorsi da bandire nei primi 6 anni di applicazione della riforma, e possibilità della chiamata diretta. Per assegnisti e contrattisti, abolizione delle forme attuali di precariato, con un “contratto unico di formazione e ricerca”: tutele assistenziali, previdenziali ed economiche. Proponiamo che, dopo la verifica dell’attitudine alla ricerca, si entri in un ruolo unico di docenza, articolato in livelli. Per chi lascia l’università, a un’età di massimo 32/33 anni, valorizzazione dell'esperienza di ricerca con priorità nei passaggi nella pubblica amministrazione e nell'insegnamento nelle scuole secondarie superiori.

7. Autonomia vera, valutazione severa per un’Università efficiente.
Funzionamento: Proponiamo che la legge preveda pochi principi essenziali sul sistema di governo degli atenei: autonomia nell’organizzazione, responsabilità per i risultati. Incentivi e disincentivi per favorire meccanismi virtuosi, focalizzando l’attribuzione delle risorse sulla valutazione.
Stato e Regioni per il sistema universitario. Valorizzazione delle Regioni per contribuire allo sviluppo dell’Università, e favorire i legami col territorio. Proponiamo un patto Stato-Regioni per definire le missioni e la coesione del sistema universitario, anche attraverso accordi e federazioni di atenei al fine di razionalizzare il sistema a livello territoriale. Un patto che governi il diritto allo studio e il welfare studentesco, e supporti l’orientamento post-laurea, il placement e gli stage in istituzioni pubbliche e private, la formazione continua. Finanziamento. L’obiettivo è aumentare l’efficienza e le risorse. Non è una contraddizione: come mostrano molte analisi, per l’università si spende poco e male. Per essere coerenti con gli obiettivi-Paese, è necessario aumentare di circa il 40% sia l’efficienza che gli investimenti. Per questo i criteri di ripartizione delle risorse devono disincentivare sprechi e meccanismi poco corretti di gestione del reclutamento e delle carriere. Il punto centrale è stabilire regole certe sulle risorse ordinarie (FFO): nell’immediato proponiamo di unificare tutti i finanziamenti statali in un unico capitolo di spesa, e di destinare a incentivi legati a parametri trasparenti tutte le risorse eccedenti il costo del personale. L’obiettivo è giungere a un sistema di attribuzione delle risorse integralmente ancorato a pochi criteri di valutazione: la qualità dell’attività didattica e della ricerca; le scelte degli studenti; la coesione territoriale del Paese; gli obiettivi di sviluppo strategico del sistema universitario.
Per liberare risorse, occorre affrontare il problema dell’interazione tra Università e sistema sanitario, intervenendo anzitutto sulla ripartizione dei costi e la gestione dei servizi di assistenza clinica. Infine, dobbiamo puntare a un aumento consistente dei fondi di dotazione per le singole università: serve una detassazione che incentivi le donazioni private alle Università.

Assemblea 21-22 maggio - Riforme

Linee per la modernizzazione e la riforma democratica dell’ordinamento costituzionale

1. Premesse:

1.1 Le linee che qui si presentano si muovono nel solco del documento dei senatori PD approvato dal Senato il 2 dicembre 2009 e del ddl approvato nella scorsa Legislatura dalla Commissione AACC della Camera. Ma vanno oltre il confine di quei documenti perchè si pongono l’obbiettivo di costruire una completa piattaforma per modernizzare e riformare con contenuti democratici il nostro ordinamento costituzionale. Perciò le linee affrontano anche i temi dell’ etica pubblica, del referendum, delle leggi di iniziativa popolare.

1.2 Le linee non prendono in esame le questioni costituzionali relative all’assetto delle diverse magistrature; al tema (salvaguardare e rafforzare, ove necessario, la indipendenza di tutti i magistrati, ma garantire trasparenza e responsabilità per ciascuno di essi) il PD intende dedicare un apposito approfondimento, sul se innanzitutto, e se sarà superata la prima valutazione, sul come e sul quando. In quella sede si valuterà, tra l’altro, se sia opportuno costituire un organo indipendente, in parte significativa espresso dalle diverse magistrature, che sia giudice disciplinare per tutti i magistrati (ordinari, amministrativi, contabili e militari) e giudice dei ricorsi contro le decisioni degli organi di autogoverno delle diverse magistrature. Si assicurerebbe così lo stesso “trattamento” disciplinare a tutti i magistrati, indipendentemente dal tipo di giurisdizione alla quale appartengono, e si individuerebbe l’organo competente a decidere, in caso di ricorso, al di fuori di una delle giurisdizioni in causa.

1.3 Sui temi della forma di governo e della riforma del bicameralismo paritario il PD ha già presentato da tempo le sue proposte. Il centro destra non l’ha ancora fatto per le sue note difficoltà interne. Noi non stiamo ad aspettare; andiamo avanti nella costruzione di una piattaforma strategica per la modernizzazione e la riforma democratica perché è nostro dovere farlo e perché i cittadini hanno il diritto di conoscere in modo completo le nostre proposte.

1.4 Le riforme devono garantire in modo inequivoco: unità nazionale, coesione civile, trasparenza delle decisioni politiche, separazione dei poteri.

1.5 I modelli di altri Paesi vanno valutati con attenzione. I tentativi di innesto di esperienze altrui falliscono se non si tiene conto delle convenzioni costituzionali che accompagnano il funzionamento dei singoli ordinamenti e delle trasformazioni che stanno verificandosi anche in ordinamenti fortemente consolidati.

1.6 Ad esempio, in Francia e in Germania vige la convenzione del non accordo con i partiti estremi. In omaggio a questa consuetudine Chirac, alcuni anni fa, in occasione delle elezioni regionali, vietò al suo partito un patto di coalizione con il Fronte Nazionale. Schroeder, nel corso della sua ultima campagna elettorale, assicurò che non avrebbe stipulato alcun patto con la Linke. Dopo il voto, se avesse stretto una intesa con l’estrema sinistra, avrebbe governato al posto della Merkel. Ma fedele alla parola data agli elettori e alla convenzione di non accordo con i partiti estremi, il Leader della SPD non stipulò quella intesa, cedette il governo alla CDU e si ritirò dalla vita politica. In Italia, invece, ha prevalso il principio dell’alleanza di tutti contro tutti, con la sola eccezione delle elezioni politiche del 2008. L’eccezione non si è riproposta nelle successive elezioni regionali. In Gran Bretagna, il patto di coalizione tra Cameron e Clegg prevede (par. 6) lo scioglimento della Camera dei Comuni non più per decisione del premier, ma solo se la richiesta è sostenuta almeno dal 55% dei componenti della Camera. Se la clausola verrà confermata attraverso una legge, si tratterrà di un significativo cambiamento del sistema britannico, con un passaggio di poteri dal Governo al Parlamento.

1.7 Le questioni vanno affrontate con distinti e omogenei disegni di legge. La presentazione dei diversi disegni di legge deve essere contestuale. In materia costituzionale è opportuno seguire il criterio del “minimo necessario”, piuttosto che il criterio del “massimo possibile”. Un disegno di legge omnibus presenterebbe il rischio di prestarsi a espansioni improprie, impedirebbe, in caso di referendum confermativo, un giudizio di carattere omogeneo, data l’eterogeneità delle materie trattate e probabilmente violerebbe il principio dell’art. 138 Cost, che prevede “leggi di revisione costituzionale”, non leggi che riscrivono intere parti della Costituzione. Le riforme che il PD propone vanno attuate con la procedura prevista dall’articolo 138; siamo contrari ad ipotesi di assemblee costituenti o di commissioni speciali.

2. Le riforme e la Costituzione

2.1 Nel corso della esperienza repubblicana l’impianto della Costituzione si è rivelato un fondamentale fattore di coesione e di modernizzazione del Paese. Le riforma vanno fatte non “contro” la Costituzione, ma “secondo” la Costituzione.

2.2 Il dibattito sulla riforma della Costituzione risale alla seconda metà degli anni Settanta, quando si lamentava il peso eccessivo delle Assemblee, la fragilità dei governi, le difficoltà della decisione politica. In tutti questi anni si è continuato a parlare di riforme, ma i termini del dibattito sono cambiati nel tempo e sono cambiate anche le esigenze.

2.3 Oggi le principali esigenze sono:
a) assicurare il rispetto dei principi fondamentali dell’etica pubblica;
b) rendere il sistema decisionale più rapido, più efficiente e più controllabile;
c) potenziare gli strumenti di partecipazione dei cittadini (nuova legge elettorale, referendum e leggi di iniziativa popolare);
d) riqualificare il Parlamento come luogo della rappresentanza politica della nazione ( Camera) e dei territori (Senato);
e) completare e razionalizzare, alla luce dell’esperienza, la riforma attuata con il nuovo Titolo V ;
f) garantire i diritti fondamentali in modo omogeneo su tutto il territorio nazionale;
g) ridurre le improprie concentrazioni di potere nelle istituzioni e nei partiti.

3. Conferme e riforme

3.1 Le finalità indicate possono essere conseguite attraverso alcune conferme e alcune riforme.

3.2 Conferme: a) confermare il carattere parlamentare della Repubblica; b) confermare il ruolo di garanzia costituzionale e di equilibrio tra i poteri della Repubblica proprio del Presidente della Repubblica; c) confermare il pluralismo come carattere fondamentale del nostro ordinamento costituzionale.

3.3 Riforme
ETICA PUBBLICA
a. Affrontare, prevalentemente con leggi ordinarie, il tema della disciplina dei partiti politici e dei costi della politica distinguendo costi della democrazia, costi del funzionamento delle istituzioni politiche, costi dell’amministrazione pubblica. Secondo alcune valutazioni il costo globale di tutto il personale politico si aggirerebbe attorno ai 4 miliardi di euro; è corretto individuare un parametro generale di riferimento per le retribuzioni di tutte le funzioni politiche (ad esempio, con riferimento ai parlamentari, considerare la media delle retribuzioni nei Paesi europei, e, come avviene nel Parlamento europeo, legare le risorse per assistenti e servizi alle prestazioni effettivamente rese). Rivedere il meccanismo dei rimborsi elettorali. Vanno inoltre individuate e colpite le fonti di spreco, che comporterebbero, secondo alcune valutazioni un costo improprio per le finanze pubbliche attorno agli 80 mld di euro. Spesso questi sprechi sono indicati con precisione nei documenti della Corte dei Conti: quanto sono costate, ad esempio, le ordinanze emanate con i poteri della protezione civile per questioni che non avevano e non hanno nulla a che vedere con la protezione civile?. Prevedere casi di incandidabilità e di decadenza in conseguenza di condanne definitive per delitti infamanti.
DIRITTI DEI CITTADINI
b. Rafforzare l’istituto del referendum, aumentando il numero delle sottoscrizioni necessarie per l’iniziativa, anticipando il giudizio della Corte Costituzionale sull’ammissibilità dei quesiti, abbassando il quorum richiesto per la validità della consultazione, riferendolo alla partecipazione al voto registrata nelle precedenti elezioni per la Camera dei deputati.
c. Rafforzare le proposte di legge di iniziativa popolare, assicurando entro termini ragionevoli l’esame parlamentare della proposta e il voto finale.
LEGGE ELETTORALE
d. Riformare la legge elettorale; restituire ai cittadini il diritto di scegliere i propri rappresentanti in Parlamento; proporre una netta differenziazione tra il sistema elettorale della Camera, che deve favorire la costruzione nelle urne di una maggioranza di governo, e il sistema elettorale del Senato, che deve favorire la rappresentanza dei territori. Per la Camera un buon sistema elettorale sarebbe quello di impianto maggioritario fondato sui collegi uninominali. Per il Senato, sarebbe positiva l’elezione diretta in collegi regionali, insieme alla elezione del Consiglio Regionale, con sistema proporzionale e clausola di sbarramento. In entrambi i casi le leggi elettorali devono garantire l’attuazione dell’art. 51 della Costituzione.
e. Divieto di doppio mandato. Costituzionalizzare il divieto di conflitto di interessi per tutte le cariche di governo nazionale, regionale e locale. Rendere più rigorosi i casi di incandidabilità, incompatibilità, ineleggibilità; attribuire alla Corte Costituzionale la competenza a decidere sui ricorsi avverso le decisioni delle Camere in queste materie.
RIFORMA DEL BICAMERALISMO PARITARIO
f. Particolarmente impegnativa è la riforma del bicameralismo paritario. Il federalismo esige un centro forte per evitare che si avviino processi di dissoluzione dell’unità nazionale; è opportuno diffidare di soluzioni “deboli” che sarebbero destinate all’insuccesso e favorirebbero processi istituzionali centrifughi. Il Senato non può essere una camera dimezzata perchè verrebbe meno tanto il principio, per noi fondamentale, del recupero della dignità delle istituzioni parlamentari quanto la necessità di una istituzione autorevole che ricolleghi l’impianto federale all’unità nazionale. Sinora la materia delle funzioni del Senato Federale è stata trattata per “sottrazione” dal bicameralismo paritario. E’ un metodo sbagliato, che non tiene conto delle specifiche funzioni di un Senato federale. Sarebbe utile, invece, ridislocare le funzioni delle due Camere in modo totalmente nuovo.
g. La Camera dei deputati, rappresentante della nazione, sarebbe titolare del rapporto fiduciario; rientrerebbe perciò nelle sue competenze conferire e ritirare la fiducia, approvare in via definitiva le leggi, con maggioranza qualificata quando intende superare le proposte correttive del Senato. Il Senato, rappresentante delle Regioni e degli Enti Locali, avrebbe il potere di richiamare tutte le pdl approvate dalla Camera entro i limiti e alle condizioni fissate dalla Costituzione; dovrebbe inoltre “governare” il rapporto tra Stato, Regioni, Autonomie Locali. Studiare il rapporto tra Il nuovo Senato e le Conferenze: le Conferenze devono restare, ma occorre ridefinirne i compiti, in relazione alle nuove competenze del Senato. Le leggi costituzionali e quelle che regolano i rapporti tra Stato, Regioni e Autonomie locali sono bicamerali, ad eccezione delle leggi che implicano una responsabilità politica del governo ( es. legge finanziaria) o la responsabilità esclusiva dello Stato (es. leggi di principio nelle materie concorrenti).
PARLAMENTO
h. Ridare autorevolezza e rappresentatività al Parlamento, oltre che con nuove leggi elettorali, attraverso la riduzione del numero dei parlamentari (da 400 a 500 deputati, da 200 a 250 senatori), il potenziamento delle funzioni di controllo, il superamento del bicameralismo paritario.
i. Prevedere principi che valorizzino, come richiesto dal Trattato di Lisbona, il ruolo dell’intero Parlamento e dei Consigli regionali nei processi di decisione comunitaria.
j. Prestare cura particolare per un procedimento legislativo snello.
k. Allo scopo di consentire al Parlamento la determinazione delle risorse necessarie per ogni legge che comporti nuove o maggiori spese, occorre costituire un Comitato di controllo della spesa pubblica, composto in modo da garantire la rappresentanza paritaria della maggioranza e delle opposizioni, supportata da un’agenzia tecnica indipendente costituita in base alla legge;
l. Rendere possibili i decreti legge solo per la materia fiscale e per le emergenze improvvise e imprevedibili; omogeneità dei d.legge e loro inemendabilità se non per la copertura finanziaria;
m. rivedere la materia delle leggi delega, estendendo i poteri di controllo del Parlamento;
GOVERNO
n. Sviluppare le indicazioni contenute nella Costituzione secondo le quali il presidente del Consiglio dirige la politica generale del Governo e ne è responsabile. Proponiamo di discutere attorno ai seguenti punti: il PdCM riceve direttamente la fiducia; nomina e revoca i ministri; può chiedere al presidente della Repubblica, dopo la deliberazione del CdM, lo scioglimento della Camera; sui ddl del governo può chiedere il voto a data fissa, compatibile con la complessità del provvedimento, nei limiti e secondo le modalità stabilite dai regolamenti parlamentari;
FEDERALISMO
o. Completare e razionalizzare la riforma del Titolo V della Costituzione attraverso la riduzione della materia della competenza concorrente, l’introduzione della clausola di sovranità, la realizzazione di una cornice unitaria di comune responsabilità (Stato, Regioni, AALL) nell’attuazione delle politiche nazionali. Occorre in particolare il coordinamento della finanza pubblica e del federalismo fiscale per la garanzia dei livelli essenziali e per il migliore funzionamento dei servizi rivolti ai cittadini.
MESSA IN SICUREZZA DELLA COSTITUZIONE
p. La Costituzione dev’essere messa in sicurezza attraverso un rafforzamento delle procedure previste dall’art. 138 Cost.; in particolare la Prima Parte della Costituzione deve essere revisionabile solo con la maggioranza dei due terzi dei parlamentari.


Questo testo è stato preparato insieme ai parlamentari PD delle Commissioni Affari Costituzionali della Camera e del Senato.

Assemblea 21-22 maggio - Lavoro

Due problemi fondamentali attanagliano il lavoro italiano: la precarietà ed il bassissimo tasso di occupazione delle donne e dei giovani, in modo drammatico nel Mezzogiorno. La profonda crisi in corso ha pesantemente aggravato i nostri mali storici: quasi 700.000 occupati in meno da Aprile 2008 e quasi un milione di lavoratori a reddito tagliato dalla collocazione in cassa integrazione nel 2009. Soffrono, in particolare, i giovani per i quali il tasso di disoccupazione si è impennato di oltre 7 punti percentuali (al 28%) e per i quali sono spesso assenti sostegni al reddito. Il tasso di occupazione è caduto di quasi 3 punti negli ultimi 18 mesi (dal 59% al 56%). Diventa sempre più intensa la rassegnazione di quanti, soprattutto giovani e donne, soprattutto al Sud, non trovano lavoro e smettono di cercarlo. Le previsioni per il 2010 indicano ulteriore aumento della disoccupazione. Alle storiche categorie “escluse” dal mercato del lavoro, si sono aggiunti negli ultimi mesi anche gli ultracinquantenni di tutte le qualifiche.

Oggi, tra i problemi prioritari, oltre alla precarietà e all’assenza di lavoro, si inserisce l’insicurezza di quanti hanno il lavoro a tempo indeterminato, ma hanno perso la prospettiva di stabilità, nonostante le “forti” garanzie giuridiche godute: i 150 tavoli di crisi aperti al Ministero dello Sviluppo per affrontare il futuro di aziende medie e grandi sono esempi chiari dell’insicurezza dei cosiddetti “garantiti”. Inoltre, il mercato del lavoro è partecipato da italiani e “nuovi italiani”. Anche i lavoratori e le lavoratrici migranti e le loro famiglie, oltre 4 milioni di persone, subiscono le conseguenze della crisi, in particolare nell’agricoltura. Ma, la transizione demografica in corso e la crescente domanda di servizi alla persona richiedono la presenza strutturale di immigrati.

Le condizioni del lavoro sono connesse con le situazioni di disagio sociale e di povertà, in particolare estrema e minorile. Nel 2008, il 5% della popolazione residente in Italia era in condizioni di povertà assoluta. Le famiglie in condizione di povertà relativa sono 2.737.000 e rappresentano l’11,3% del totale, mentre gli individui poveri sono oltre 8 milioni, pari al 13,6% della popolazione, con un significativo aumento dei working poors. Sono dati tra i peggiori di Europa. Soffrono soprattutto le famiglie con figli minori ed, in particolare, nel Mezzogiorno.

Nell’ultimo quarto di secolo, il lavoro è cambiato in tutta l’area dei Paesi più sviluppati. Tenere conto delle diversità, spesso subite, qualche volta scelte, delle condizioni del lavoro e riconoscere la molteplicità dei rapporti tra tempi di vita e tempi di lavoro per valorizzarla vuol dire superare i tanti dualismi del mercato del lavoro. Alcuni Paesi additati in questi anni a modello di performance economica (Stati Uniti, Regno Unito, Irlanda, Spagna), caratterizzati dalla liberalizzazione estrema del mercato del lavoro, hanno conosciuto ritmi di crescita intensi grazie, soprattutto, a politiche macroeconomiche espansive, ossia al colossale indebitamento delle famiglie. Il debito privato ha compensato gli effetti negativi sulla crescita derivanti dalla precarietà delle condizioni e dei redditi da lavoro. In fondo, la svalutazione del lavoro è stata la causa primaria della crisi in corso. Per contro, altri paesi (Svezia, Danimarca in prima fila), caratterizzati da efficaci reti di welfare e da politiche per la crescita di qualità (dagli investimenti in R&S ed in infrastrutture, alla regolazione concorrenziale dei mercati, alla qualità delle pubbliche amministrazioni, al sistema fiscale, ecc) hanno registrato un’espansione significativa e stabile nella produzione e nell’occupazione.

In sintesi, la regolazione del mercato del lavoro non è variabile indipendente. I mercati globali, le caratteristiche del paradigma tecnologico diffuso e la “forza” del consumatore richiedono flessibilità nelle unità produttive. Tuttavia, il punto è, in particolare in Italia, l’utilizzo delle forme contrattuali precarie per la riduzione del costo del lavoro. Un utilizzo improprio che ha disincentivato, in tanti casi, l’investimento delle imprese in innovazione e l’innalzamento della produttività.

In Italia, i dati disponibili indicano che i rapporti di lavoro precari sono concentrati nelle imprese con meno di 9 occupati, ossia le unità produttive “libere” dai vincoli dell’articolo 18 dello Statuto dei Lavoratori, mentre diminuiscono al crescere della dimensione occupazionale dell’impresa. Insomma, in Italia la precarietà si è diffusa in quanto i contratti precari costano al datore di lavoro, in termini di contribuzione sociale e di retribuzione o compenso (definiti al di fuori dei contratti nazionali di lavoro ed in assenza di una legge sul salario minimo), molto meno dei contratti di lavoro dipendente a tempo indeterminato. In un Paese abituato a competere drogato dalle svalutazioni della Lira, l’avvento dell’euro, i ritardi nelle riforme strutturali e nella politica industriale e gli scarsi investimenti in R&S da parte delle imprese sono stati in parte compensati dall’abbattimento del costo del lavoro mediante i contratti precari e la stagnazione delle retribuzioni dei lavoratori a tempo indeterminato.

La politica del lavoro del Governo dall’inizio della legislatura ha aumentato la precarietà e penalizzato, in particolare, i giovani e le donne. Ad esempio, nel caso dei call centers, lo smantellamento dei limiti ai contratti a progetto ha determinato, da un lato, lo spiazzamento delle imprese che avevano stabilizzato i lavoratori attraverso gli incentivi introdotti nel 2006 e, dall’altro, la cassa integrazione per migliaia di giovani. Le misure introdotte dal Ministro Sacconi, da ultimo nel “Collegato lavoro” rinviato dal Presidente Napolitano alle Camere, tendono a far regredire il livello minimo universale di tutele, diritti e retribuzione dei lavoratori e delle lavoratrici e puntano a corporativizzare sul piano territoriale e settoriale i nuclei più forti di lavoratori.

La strategia del PD per il “diritto unico” del lavoro. Il PD è “il partito del lavoro”, “fondato sul lavoro”. Per il PD, il nesso tra diritti di cittadinanza e diritti sociali e del lavoro è indissolubile. Il lavoro è fonte di identità della persona umana e, al tempo stesso, come indicato all’art 1 della nostra Costituzione, fonte di cittadinanza democratica. Il PD intende rappresentare il lavoro “in tutte le sue forme”, dal lavoro (relativamente) stabile a tempo indeterminato, al lavoro precario e parasubordinato, dal lavoro di artigiani, commercianti e professionisti, al lavoro dell’imprenditore.

Innalzare il potenziale di crescita dell’economia italiana è condizione necessaria per migliorare le condizioni del lavoro, aumentare il tasso di occupazione e l’inclusione sociale e combattere la povertà. Nella fase in corso, è decisivo rilanciare la domanda effettiva in Europa e nella nostra economia. Infatti, le condizioni del mercato del lavoro dipendono innanzitutto e soprattutto dalle crescita economica.

Il circolo virtuoso della crescita va riavviato, innanzitutto, nell’Unione Europea e nell’area dell’euro, attraverso la costruzione di una governance economica comune adeguata ad aggredire gli squilibri esistenti in termini non solo di disavanzi pubblici, ma anche di avanzi (Germania, Olanda) e disavanzi (Grecia, Spagna, Portogallo) delle bilance correnti, ossia gli squilibri dei potenziali di crescita dei Paesi euro. A tal fine, nell’ambito della Strategia Europa 2020, è decisivo attuare un Piano Europeo per il Lavoro, finanziato con eurobonds, regolare, dare trasparenza e frenare l’attività speculativa di tutti gli investitori istituzionali.

Sul versante “interno”, l’Italia deve qualificare la crescita. Dobbiamo inscrivere le riforme della regolazione dei rapporti di lavoro dentro una più generale strategia "alta" di crescita. Insomma, non è sostenibile una proposta radicalmente alternativa alla strategia del Ministro Sacconi sul mercato del lavoro senza una strategia radicalmente alternativa per il futuro dell’Italia. Quindi, oltre al piano della politica macro-economica europea, sono necessarie riforme del welfare, investimenti pubblici e privati nell'innovazione, nella ricerca, nella scuola e nell'università, nella formazione permanente, investimenti nelle infrastrutture per la green economy e green society, liberalizzazione dei mercati dei servizi alle persone e alle imprese, riorganizzazione del fisco, riforme delle pubbliche amministrazioni, in particolare della giustizia civile, riforme della rappresentanza politica, economica e sociale e dell’efficienza delle istituzioni democratiche e, non ultimo in termini di rilevanza per la crescita economica, innalzamento del capitale sociale, della legalità e del civismo.

Per la ricomposizione del mondo del lavoro, non solo delle sue tutele, ma anche delle sue opportunità, nel riconoscimento delle specificità delle attività lavorative e delle oggettive esigenze di flessibilità e di competitività delle imprese, non vi sono scorciatoie. Un modello unico di contratto di lavoro è un obiettivo da collocare in un quadro di elevata e consolidata dinamica della produttività, condizione necessaria a compensare il connesso aumento di costo per l’impresa. Oggi, data la difficile fase dell’economia europea, considerata l’anemia della produttività italiana e l’aumento strutturale della disoccupazione, proponiamo un ventaglio di interventi per andare verso il superamento del mercato del lavoro duale. Le proposte sono frutto di una lunga, approfondita e largamente condivisa elaborazione dei parlamentari del Pd delle Commissioni Lavoro di Camera e Senato.

La strategia proposta dal Pd per promuovere il “diritto unico” del lavoro, si articola lungo due principi di fondo: la migliore flex-security europea; l’universalità dei diritti fondamentali di cittadinanza, in particolare il welfare orientato a promuovere il benessere di tutto il nucleo famigliare, anche attraverso misure di conciliazione lavoro-famiglia. I capisaldi della strategia del Pd, da portare avanti in modo graduale al fine di evitare ogni onere aggiuntivo per la finanza pubblica, sono i seguenti:

1. incentivazione del contratto a tempo indeterminato, definito dall'UE "forma normale del rapporto di lavoro", attraverso il minor costo della stabilità rispetto alla precarietà, ossia mediante l’allineamento e la riduzione del cuneo contributivo. In particolare:
a. graduale convergenza degli oneri sociali complessivi sul lavoro intorno ad un livello intermedio tra quanto oggi versato per i lavoratori dipendenti a tempo indeterminato e per i lavoratori impigliati in contratti low cost (primo tassello di una complessiva riforma per spostare il carico fiscale dai redditi da lavoro ed impresa ai redditi da capitale);
b. maggiorazione degli oneri contributivi per indennità di disoccupazione e indennità di fine rapporto sui contratti a tempo determinato (ad eccezione dei contratti a contenuto formativo) e sui contratti atipici;
c. introduzione di un salario o compenso minimo, determinato in riferimento agli accordi tra le parti sociali, per i lavoratori e le lavoratrici escluse dai contratti collettivi nazionali di lavoro, per i contratti a progetto, stage;
d. eliminazione dell’associazione in partecipazione con solo apporto di lavoro e dello staff leasing; delimitazione degli spazi di applicazione dei contratti a progetto, dei contratti a chiamata, del voucher;
e. restrizione, come previsto nel “Protocollo sul welfare” del 2007, della durata complessiva e delle causali dei contratti a tempo determinato ed introduzione di “tetti” in ogni azienda per la quota, sul totale degli occupati, di lavoratori e lavoratrici con contratto a tempo determinato;
f. incentivazione fiscale e contributiva alla stabilità legata alla effettiva formazione (vedi punto 8);

2. graduale introduzione di una base di “diritti di cittadinanza” per tutte le forme di lavoro, comprese le imprese individuali (vedi punto 7), in materia di garanzia del reddito, malattia, infortuni, riposo psicofisico, maternità; in particolare, universalizzazione dell'indennità di disoccupazione, anche nei confronti del lavoro autonomo e professionale; introduzione di un'indennità di disoccupazione means tested (a carico della fiscalità generale, in coda all'indennità assicurativa); unificazione e riforma della CIG ordinaria e straordinaria, anche al fine di consentire la ricollocazione dei lavoratori in relazione alla riorganizzazione dell'apparato produttivo; eliminazione dell'indennità di mobilità; potenziamento degli incentivi fiscali per i contratti di solidarietà; politiche attive specifiche per il re-inserimento al lavoro degli over-45;

3. integrazione delle pensioni delle future generazioni di lavoratori e lavoratrici attraverso una quota a carico della fiscalità generale, determinata in relazione alla contribuzione versata; ripristino ed allungamento dell’intervallo per la scelta dell’età di pensionamento e allineamento dei requisiti per uomini e donne;

4. introduzione di un reddito minimo di inserimento sul modello del “Reddito di Solidarietà Attiva” per combattere la povertà e l’esclusione sociale, in particolare la povertà estrema e minorile;

5. trasformazione dell'indennità di maternità in diritto di cittadinanza e relativo finanziamento a carico della fiscalità generale; per incentivare l’occupazione femminile, introduzione di una detrazione fiscale per il reddito da lavoro delle donne in nuclei famigliari con figli minori; superamento degli assegni famigliari e della detrazione per figli a carico ed introduzione di un contributo annuale di 3000 euro all’anno per ogni figlio fino alla maggiore età, a cominciare dalla fascia 0-3 anni, esteso anche ai lavoratori autonomi e professionisti; introduzione del part-time agevolato e volontario, innalzamento dell’indennità per i congedi parentali, incentivazione del rientro al lavoro delle donne ultra-quarantenni; potenziamento, secondo i principi della sussidiarietà, dei servizi alla famiglia (dagli asili nido all’assistenza agli anziani non-autosufficienti); credito di imposta per l’occupazione femminile nelle aree svantaggiate; avvio del “Conto personale di cittadinanza”, forma di risparmio agevolata per favorire l’autonomia ed il lavoro dei giovani;

6. rafforzamento delle misure legislative ed amministrative (incluse le risorse finanziare ed umane per i controlli) per favorire l’emersione del lavoro e per il miglioramento della sicurezza e della salute nei luoghi di lavoro; esclusione dal prezzo degli appalti, in particolare quelli al massimo ribasso, del costo del lavoro e delle misure di sicurezza; recepimento della direttiva europea per il contrasto al lavoro dei migranti senza regolare permesso di soggiorno; revisione della normativa sull’immigrazione per promuovere l’ingresso regolare per lavoro; nell’immediato, prolungamento del permesso di soggiorno per i lavoratori migranti disoccupati entrati in modo regolare;

7. introduzione dello Statuto dei Lavoratori Autonomi e dei Professionisti per definire un denominatore di tutele e di incentivi rispondente alle esigenze comuni di artigiani, commercianti, professionisti;

8. riforma del contratto di apprendistato per incentivare formazione effettiva ed adeguata ai fabbisogni delle imprese; allungamento del “periodo di prova” in rapporto alla natura delle mansioni assegnate; introduzione del diritto alla formazione permanente come diritto soggettivo nella società della conoscenza;

9. potenziamento delle politiche attive per il lavoro, quindi integrazione delle politiche sociali e del lavoro con le politiche della formazione per favorire l’inserimento lavorativo dei soggetti in difficoltà; valorizzazione e potenziamento dei Servizi per l’impiego in ottica di complementarietà tra pubblico e privato in un quadro regolativo di controllo pubblico;

10. approvazione, in relazione all'accordo interconfederale tra le parti sociali, di una legge quadro per la democrazia sindacale per disciplinare rappresentanza, rappresentatività e validazione dei contratti, condizione necessaria, tra l’altro, per ridefinire, nel pieno rispetto dei principi costituzionali, la regolazione del diritto di sciopero nei trasporti, impossibile per delega legislativa.